Capi spacciati per 100% cotone che non lo sono affatto: ecco cosa c’è dietro l’industria della fast fashion con un video che ancora una volta lo dimostra
Ti fidi dell’industria della fast fashion? Purtroppo come ben sappiamo, l’unica risposta che ci si può dare è no. E a confermarlo ancora una volta c’è un video postato su Instagram sta facendo il giro del web, sollevando seri dubbi sulla trasparenza di questo mondo.
Nel filmato, un capo d’abbigliamento etichettato come “100% cotone” viene sottoposto a un test con gli strumenti di Matoha consentono di identificare rapidamente plastiche e tessuti. Il risultato? Il dispositivo rivela che il tessuto è in realtà composto per il 75% da viscosa e solo per il 25% da cotone, dimostrando nuovamente quanto si debba essere accorti sulla fast fashion e sulle verità nascoste.
Ma come funzionano tali strumenti? Utilizzando la spettroscopia nel vicino infrarosso (NIR) questi sono in grado di capire di che tipo di plastiche e tessuti si tratta. Questo è particolarmente utile nel processo di riciclaggio, dove la precisione e la velocità sono essenziali per gestire i rifiuti tessili. La tecnologia di Matoha supporta l’identificazione di 9 materiali puri e 13 diverse miscele bicomponenti, con livelli di precisione del ±5% per i puri e ±10% per le miscele.
Tutto questo c’è dietro la Fast Fashion
È bastato dunque un semplice test per scoperchiare il vaso di Pandora dell’industria della fast fashion, avvalorando le critiche che vengono mosse a questo settore per l’uso di materiali di bassa qualità volutamente fatto per far sì che i capi siano praticamente usa e getta.
I vestiti prodotti velocemente e a basso costo sono solitamente realizzati con tessuti sintetici e miscele che si deteriorano rapidamente, aumentando la quantità di rifiuti tessili e spingendo il consumatore ad acquistarne di nuovo.
Oltre a queste pratiche che danneggiano l’ambiente, non mancano le questioni etiche riguardo al trattamento dei lavoratori. Le condizioni di lavoro in molte fabbriche di fast fashion sono spesso precarie, con salari bassi e orari di lavoro eccessivi ben oltre il limite dello sfruttamento, come spesso documentato da organizzazioni e attivisti.
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