Apple nella bufera: divise per i dipendenti prodotte da fornitore cinese già sanzionato per lavoro forzato

La Apple avrebbe favorito il lavoro forzato acquistando, almeno in passato, cotone proveniente dallo Xinijaing

Una pesante accusa ai danni della Apple arriva da un’inchiesta del quotidiano The Guardian. L’azienda avrebbe acquistato vestiti per i propri dipendenti da un fornitore cinese sanzionato dagli Stati Uniti in quanto utilizza lavoro forzato.

Secondo quanto svelano i registri di spedizione, la Apple avrebbe favorito il lavoro forzato acquistando vestiti, probabilmente divise per il personale dei suoi negozi, da una ditta dello Xinijaing, territorio autonomo nel Nord-ovest della Cina.

L’azienda in questione, la Changji Esquel Textile, un’unità del gruppo di abbigliamento di Hong Kong Esquel, è stata sanzionata dagli Usa, insieme ad altre 10 società cinesi, per aver violato i diritti umani e utilizzato il lavoro forzato.

Nei territori dello Xinijaing, purtroppo, la persecuzione delle autorità cinesi ai danni delle minoranze, per lo più musulmane,  include proprio il lavoro forzato.

Un mese prima che le sanzioni venissero annunciate, Esquel aveva inviato una spedizione di camicie in maglia di cotone ed elastan da donna ai “negozi Apple Retail” in California. A provarlo vi è il database gestito dal fornitore globale di informazioni sulle spedizioni Panjiva.

Fino a poco tempo, comunque, il sito web di Esquel elencava Apple come “cliente importante” secondo quando riporta l’Australian Strategic Policy Institute (ASPI), che ha prodotto uno studio specifico sul lavoro forzato nello Xinjiang.

I rapporti tra Apple ed Esquel ci sono stati ad esempio nel 2014 quando le due aziende hanno deciso di produrre divise più ecosostenibili scegliendo di realizzarle in cotone riciclato.

Ma l’azienda cinese non si è limitata a rifornire solo la Apple, ha infatti venduto i propri prodotti anche ad altre note aziende statunitensi tra cui Patagonia, Nike e Tommy Hilfiger.

Questi e molti altri dettagli trapelano da un articolo su The Guardian pochi giorni dopo la dichiarazione del CEO della Apple, Tim Cook, che ha definito il lavoro forzato come “abominevole” e fatto sapere che l’azienda non avrebbe tollerato alcun tipo di schiavitù moderna nelle catene di fornitura dell’azienda.

Un portavoce della Apple ha subito prontamente affermato che, attualmente,  nessun fornitore acquista cotone dallo Xinjiang. Non è dato sapere invece cosa è stato fatto in passato.

L’azienda stessa coinvolta nello scandalo del lavoro forzato è intervenuta per assicurare che non vi è nulla di vero nell’accusa che gli è stata fatta:

“Non utilizziamo e non utilizzeremo mai il lavoro forzato in nessuna parte della nostra azienda”, hanno fatto sapere dalla  Esquel sottolineando che verrà presentato un ricorso contro la sua inclusione nell’elenco delle aziende sanzionate.

La situazione del lavoro forzato in questa parte della Cina è davvero seria. Come ha affermato James Millward, professore di storia alla Georgetown University di Washington DC e autore di “Eurasian Crossroads: A History of Xinjiang“,  l’economia dell’intera regione è stata contaminata dalle politiche del partito comunista cinese, con almeno 1 milione di persone detenute nei campi di internamento, molti spinti al lavoro forzato.

“È un sistema di oppressione così profondamente radicato e ampiamente invischiato che ha coinvolto centinaia di aziende in Cina e al di fuori della Cina”.

E il problema è che, anche se gli stabilimenti delle aziende possono essere certificati come “puliti” in quanto a lavoro forzato, spesso dietro vi sono abusi o autorizzazioni da parte del governo locale con cui fanno affari.

Troppo facile poi per la Apple dire: “non faccio affari nello Xinjiang”, quindi non favorisco il lavoro forzato. La situazione è molto più complicata e complessa, nell’industria tessile i passaggi sono tanti e difficili da ricostruire.

“Devi vedere se qualcuna delle aziende con cui hai a che fare ha rapporti con lo Xinjiang. E magari trovi due o tre passaggi rimossi perché è così che fa l’industria tessile. Si va dalla fibra al filamento, al tessuto, all’abbigliamento, ed è molto difficile rintracciare tutto questo lungo il percorso” ha concluso il professor Millward.

Non è poi la prima volta che la Apple risulta coinvolta in qualche modo nella violazione dei diritti umani. L’anno scorso vi avevamo parlato dei bambini sfruttati nelle miniere e della class action portata avanti dalle loro famiglie per avere giustizia.

Fonte: The Guardian

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