Secondo l'ultimo rapporto di Greenpeace Panni sporchi 2, molti dei capi d'abbigliamento di alcune tra le più prestigiose marche conterrebbero sostanze tossiche per la salute e l'ambiente.
Quanto costa vestirsi con capi firmati e alla moda? Tanto al portafoglio e, a quanto pare, anche alla salute, stando all’ultimo rapporto di Greenpeace. L’associazione ambientalista ha infatti analizzato numerosi capi d’abbigliamento sportivi e calzature prodotti dalle più famose marche e acquistati in 18 Paesi del mondo, tra cui anche l’Italia, riscontrando su gran parte di essi la presenza di sostanze dannose per l’ambiente e la nostra salute.
Dallo studio è risultato che ben 52 dei 78 capi presentavano tracce di nonifenoli etossilati (Npe), composti chimici utilizzati come detergenti nell’industria tessile e che, una volta rilasciati nell’ambiente, si trasformano in una sostanza (il nonilfenolo – Np), che ha proprietà tossiche e dannose per il sistema ormonale dell’uomo. Non solo: la sua composizione è tale che fa sì che esso non si degradi facilmente, accumulandosi lungo la catena alimentare, come ha spiegato l’attivista Li Yifang alla conferenza stampa di presentazione del rapporto “Panni sporchi 2”, a Pechino: “Il nonifenolo è un distruttore endocrino, può contaminare la catena alimentare e accumularsi negli organismi viventi, mettendo a rischio la loro fertilità, il sistema riproduttivo e la crescita”.
A finire nell’occhio del ciclone sono state ben 14 aziende internazionali, tra cui Adidas, Uniqlo, Calvin Klein, H&M, Abercrombie&Fitch, Lacoste, Converse, Nike e Ralph Lauren. I capi analizzati erano inoltre tutti prodotti in Cina, Vietnam, Malesia e Filippine, con una pratica ormai diffusa tra le multinazionali, che aiuta ad abbattere i costi della manodopera e ad evitare i rigidi controlli sulla catena produttiva imposti invece nei paesi occidentali.
A farne le spese, come sempre, siamo invece noi consumatori, che non traiamo minimamente vantaggio dalla riduzione dei loro costi e, anzi, mettiamo a rischio la nostra salute indossando capi non sempre controllati e spesso pericolosi. Nel caso dei nonifenoli riscontrati da Greenpeace sui capi esaminati, ad esempio, il rischio riguarda ovviamente anche i paesi in cui il capo viene distribuito e non solo quelli in cui avviene il processo produttivo. Questo perché, durante il lavaggio, vengono rilasciate piccole parti di Npe, che si diffondono anche laddovve il loro utilizzo è proibito. Per non parlare poi dell’inquinamento che queste sostanze causano nelle falde e nei fiumi, a causa degli scarichi delle industrie in cui vengono lavati i tessuti.
Nel rapporto si legge infatti che “I livelli di NPE trovati negli articoli non risultano particolarmente elevati e non costituiscono una fonte diretta di rischio per la salute di chi indossa gli abiti, ma il volume dei tessuti esportati nei paesi occidentali e soggetti a lavaggio da parte dei consumatori è tale da rendere non trascurabile la quantità che nell’insieme viene rilasciata nell’ambiente”.
Lo studio di Greenpeace non poteva dunque che generare polemiche e reazioni: dopo la pubblicazione molti attivisti si sono radunati davanti ad un grande magazzino Adidas di Honk Kong per chiedere all’azienda di eliminare le sostanze chimiche dannose dai procedimenti di lavorazione dei suoi prodotti, richiesta che finora non ha ricevuto risposta, nonostante il colosso dell’abbigliamento fosse già stato oggetto del precedente rapporto di Greenpeace, che denunciava il problema dell’inquinamento dei fiumi cinesi a causa degli scarichi dell’industria tessile.
A dare qualche cenno sono state, invece, Nike e Puma, che si sono impegnate a eliminare entro il 2020 tutte le sostanze pericolose dai loro prodotti. Con la speranza che alle parole seguano adesso i fatti.
Eleonora Cresci