Fast fashion: abusi sessuali, minacce e turni di 17 ore, cosa accade nelle fabbriche che producono per H&M, Primark e non solo

Il caso H&M è l’ultimo di una lunga serie che non raggiunge le cronache: abusi verbali, violenze sessuali, licenziamenti ingiustificati, ecco a cosa vanno incontro tutte quelle donne che assemblano i capi mordi-e-fuggi di collezioni istantanee

Un nuovo report condotto da Business & Human Rights Resource Center con Asia Floor Wage Alliance e Society for Labor & Development pone l’accento sulle condizioni di lavoro, gli abusi verbali e sessuali sulle donne impiegate nel tessile, in particolare nell’area di Delhi NCR, Karnataka e Tamil Nadu in India.

È qui che si trovano le fabbriche produttrici degli indumenti con i marchi di American Eagle, ASDA, C&A, Carrefour, H&M, JD Sports, Kohl’s, Levi Strauss & Co., Marks & Spencer, Primark, Tesco e VF Corporation che include tra i suoi marchi Vans. Il Paese è il secondo al mondo per produzione e esportazione di vestiario con circa 12,9 milioni di persone impiegate nelle diverse fasi di questa filiera del fast-fashion.

L’indagine estensiva

Sono state raccolte le testimonianze di 90 lavoratrici dislocate in 31 diverse fabbriche che hanno tracciato un quadro agghiacciante: abusi consumati sul lavoro e una situazione peggiorata in tal senso con la pandemia del Covid-19.

Parliamo di donne che vivevano, già prima del 2020, una condizione di non indipendenza economica, spesso sfruttate anche in famiglia da mariti violenti e che negli ultimi due anni, hanno visto peggiorare la loro situazione.

Da un lato non potevano lasciare la casa matrimoniale per rifugiarsi dai genitori, dall’altro quando si recavano al lavoro l’escalation di violenze aumentava di pari passo con l’espansione massiccia dell’e-commerce in particolar nel settore e dell’abbigliamento e del fast fashion.

 

Le condizioni di lavoro

Molte delle interviste hanno raccontato di giornate infinite anche di 17 ore trascorse a cucire o in piedi per produrre circa 1300 unità al giorno, stipate in strutture malsane dove non era rispettata alcuna norma igienica o di distanziamento, senza straordinari pagati e pause ridotte all’osso.

Tutte hanno visto e vissuto episodi di violenze da parte di supervisori e manager uomini che le obbligavano a lavorare senza sosta per raggiungere obiettivi di produzione fissati dai marchi e rispondere a una domanda crescente. Parliamo di abusi verbali, fisici, licenziamenti ingiustificati anche per gravidanze, infortuni di vario tipo.

Le giornate di lavoro

Le voci delle vittime raccontano di giornate infermali come quelle di Meena impiegata in una delle fabbriche che fornisce Carrefour e C&A:

Quando [tornavamo al lavoro] i nostri obiettivi erano molto alti: 1.200-1.300 unità al giorno … Le minacce di licenziamento erano frequenti e i lavoratori che commettevano anche piccoli errori venivano minacciati in modo aggressivo. Le molestie verbali e fisiche, inclusi colpire e lanciare pacchi di vestiti contro le lavoratrici, erano più comuni durante questo periodo”.

Ma ci sono anche i racconti di Pia che lavora in una fabbrica che fornisce anche H&M:

Non c’è differenza tra il lavoro e casa. In entrambi i posti lavoro e vengo abusata. In fabbrica dal manager, a casa da marito e parenti acquisiti. (…) Il manager ci assegnava target di produzione sempre più elevati, non potevamo completarli in otto ore e quindi ci urlava contro. Ci facevano fare ore extra che non erano segnate e non erano pagate. Arrivavo quindi tardi a casa per queste ore non registrate. Mio marito mi urlava contro, chiedendomi perché facessi tardi e con chi ero … non potevo dirgli delle molestie in fabbrica da parte dei manager, mi avrebbe chiesto di lasciare i lavoro e non avrei avuto alcun reddito.

Un modello di business fuori controllo

Ma cosa favorisce una sistema di questo tipo? Sono tanti i componenti che compongono una catena di produzione insalubre. L’assenza di un regolamento governativo è alla base di una “libertà” di azione senza scrupoli per ottenere un profitto crescente da parte dei vari marchi.

Gli stessi che in genere mantengono rapporti instabili con i fornitori: in questo modo possono fare leva su un prezzo sempre inferiore nella produzione che, in parallelo, in numeri è cresciuta esponenzialmente. A pagarne le conseguenze sono coloro che si occupano di tagliare, cucire, confezionare e impacchettare degli abiti quindi le donne che nella stragrande maggioranza dei casi è utilizzata in questo settore.

Violenze sessuali: il caso H&M e i primi accordi di settore

Il tema delle violenze sessuali in questi contesti non è purtroppo nuovo. Un caso internazionali ha coinvolto il colosso svedese H&M. Nel gennaio 2021, la 20enne Jeyasre Kathiravel è stata trovata morta in un terreno agricolo vicino casa dopo un turno in una fabbrica di vestiti, nell’area di Kaithian Kottai nel Tamil Nadu, che fornisce H&M.

Dopo le indagini condotte il suo diretto supervisor ha confessato la violenza carnale e l’omicidio della giovane che già, nei mesi precedenti, aveva subito molestie e intimidazioni sessuali, impotente però di reagire a un sistema incancrenito. Sono state ascoltate diverse lavoratrici che hanno raccontato tutte le stesse identiche storie di soprusi.

H&M ha firmato un accordo legalmente vincolante per porre fine alla violenze e alle molestie contro le lavoratrici di uno dei suoi maggiori fornitori indiani: impiegati, supervisori e dirigenti dovranno sottoporsi a una formazione sulla violenza di genere; verranno inoltre reclutate e formate delle lavoratrici-controllori per garantire che non si ripetano più fatti di questo tipo, a nessun livello.

Questo è solo il secondo accordo di questo tipo nel settore della moda e, al contempo, è la prima volta che un grande marchio ha sottoscritto un’iniziativa di questo tipo in Asia. L’altro è del 2019: i marchi Levi Strauss, Wrangler Jeans e The Children’s Place hanno firmato un’intesa industriale sul Lesotho, dopo che un’indagine aveva svelato la sistematica aggressione sessuale ai danni di oltre 120 donne in tre fabbriche di jeans nel paese.

Questi due episodi, che sono la punta dell’iceberg, dimostrano altre due cose. A dispetto dei vari codici etici inseriti nelle pagine internet di molti brand, la verità sembra proprio un’altra. Infine appare sempre più difficile credere ancora che sia impossibile sapere, da parte dei quartier generali dei grandi brand, cosa accade in quelle fabbriche malsane.

Quanto ancora occorre attendere per un accordo di settore in favore di chi confeziona la gran parte dei vestiti che portiamo?

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Fonti: Business & Human Rights Resource Centre

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