Il pendolare non solo è stressato, ma inquina pure. Si sveglia sempre alla stessa ora e racimola sempre le stesse ore di lavoro in una routine che prima o poi manda in pappa il cervello, va e torna a casa quasi sempre con gli stessi mezzi, sbottando contro un treno che non parte mai o nel traffico in auto che non finisce più. Siamo sicuri che andare e venire dagli uffici faccia bene a noi e all’ambiente? E se snellissimo un po’ le modalità di lavoro?
Lo smart working, un lavoro agile, evita il pendolarismo e ridurrebbe non solo lo stress, ma anche le emissioni di CO2 in maniera consistente
Il pendolare non solo è stressato, ma inquina pure. Si sveglia sempre alla stessa ora e racimola sempre le stesse ore di lavoro in una routine che prima o poi manda in pappa il cervello, va e torna a casa quasi sempre con gli stessi mezzi, sbottando contro un treno che non parte mai o nel traffico in auto che non finisce più. Siamo sicuri che andare e venire dagli uffici faccia bene a noi e all’ambiente? E se snellissimo un po’ le modalità di lavoro?
Poche ancora sono le aziende che hanno adottato il cosiddetto “smart working”, ossia la possibilità di offrire un lavoro flessibile da casa, che consente a sua volta anche di vivere in modo più sano. Una nuova cultura lavorativa in cui i membri di un ufficio possano connettersi tra loro, indipendentemente da dove.
Sarebbe un grosso vantaggio, in primo luogo a livello personale, perché – secondo un studio intitolato Added Value of Flexible Working e commissionato da Regus, un fornitore mondiale di spazi di lavoro – si risparmierebbero ben 3,53 miliardi di ore impiegate ogni anno per raggiungere il posto di lavoro, che è l’equivalente del tempo passato al lavoro annualmente da 2,01 miliardi di persone (e il che equivale a sua volta a un migliore rapporto tra vita e lavoro e più tempo con la famiglia). E ci sarebbero anche grossi vantaggi economici: il valore aggiunto della flessibilità all’economia mondiale sarebbe pari a più di 10mila miliardi di dollari se venisse applicata nei sedici Paesi analizzati, ovvero Australia, Austria, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Hong Kong, India, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Polonia, Singapore, Stati Uniti e Svizzera.
E non solo. I numeri che riguardano l’ambiente sono davvero impressionanti: se il lavoro flessibile si diffondesse su vasta scala, si ridurrebbero i livelli di anidride carbonica di 214 milioni di tonnellate ogni anno entro il 2030, la stessa quantità di CO2 che verrebbe sottratta dall’atmosfera da 5,5 miliardi di alberi.
Secondo i dati di Regus, solo in Inghilterra si risparmierebbero 7,8 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2030 e si eviterebbero 115 milioni di ore annue dovute al pendolarismo. Negli Stati Uniti, invece, si conterebbero in meno 110 milioni di tonnellate di CO2 e 960 milioni di ore.
Ma come stiamo messi in generale? Per ora, il Paese più flessibile in assoluto è la Svezia, con il 51% dei lavoratori; ci sono poi la Repubblica ceca (48%), la Slovacchia e la Norvegia (40%), la Germania (34%), l’Austria (32%), l’Inghilterra (24%) e l’Italia.
Qui da noi la definizione di lavoro agile è contenuta nella Legge n. 81/2017.
Ai “lavoratori agili” è garantita la parità di trattamento – economico e normativo – rispetto ai loro colleghi che eseguono la prestazione con modalità ordinarie. Dal novembre del 2017, le aziende sottoscrittrici di accordi individuali di smart working potranno procedere al loro invio attraverso l’apposita piattaforma informatica messa a disposizione sul portale dei servizi del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Qui trovate tutte le informazioni.
Secondo l’ultima rilevazione dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, gli smart workers italiani ammontano a circa 305mila, pari all’8% del totale dei lavoratori (480 mila secondo altre stime). Nel nostro Paese il 36% delle grandi imprese ha avviato progetti strutturati di lavoro agile, soprattutto a Milano. Mentre nella Pubblica Amministrazione solo il 5% degli enti ha dato avvio a una sperimentazione.
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Germana Carillo