Zaniolo e il suo “gamberetto”: perché (quasi) nessuno dice che si tratta di body shaming?

Nicolò Zaniolo, calciatore della Roma, pochi giorni fa è stato vittima di body shaming. Perché nessuno lo dice? Perché, quando la vittima è un uomo, si pensa - erroneamente - che il fatto sia meno grave, se non addirittura goliardico, quindi trascurabile?

Nicolò Zaniolo, calciatore della Roma, pochi giorni fa è stato vittima di body shaming. Quello che è successo è ormai ben noto: la sua ex fidanzata, l’influencer Chiara Nasti, indignata per i cori dei tifosi della Roma, ha risposto ad un commento sul suo profilo Instagram.

I fatti, nello specifico, sono questi: la Nasti aspetta un figlio dal calciatore della Lazio Mattia Zaccagni; dopo la vittoria della squadra di Zaniolo nella Conferenze League, i tifosi in coro hanno urlato «Il figlio di Zaccagni è di Zaniolo». Un utente ha chiesto all’influencer cosa ne pensasse e lei, in tutta risposta, ha commentato così l’accaduto: «Cosa ne penso del coro di Zaniolo? Che con quel gamberetto non si sa come abbia già avuto un bambino».

@Instagram

Ora, premesso che i cori sono stati volgari e del tutto inappropriati, premesso anche che Zaniolo avrebbe potuto astenersi dal prenderne parte, resta una verità inconfutabile: in questa storia, il calciatore è vittima di body shaming. Perché nessuno lo dice? Perché, quando la vittima è un uomo, si pensa – erroneamente – che il fatto sia meno grave, se non addirittura goliardico, quindi trascurabile?

Il body shaming, che è l’atto di deridere o discriminare una persona per il suo aspetto fisico, riguarda tutti indistintamente: donne, uomini, persone in sovrappeso o sottopeso, naturali o che abbiano fatto ricorso alla chirurgia estetica. La vittima è sempre vittima, nessuna forma di violenza è meno grave in base a chi la subisce.

C’è da dire, inoltre, che la violenza ha originato altra violenza, perché – come spesso accade da che esistono i social – è facile che si vengano a creare due fazioni. E così, se – da una parte – molti hanno detto che Zaniolo, non essendosi tirato indietro di fronte ai cori, abbia meritato l’attacco della ex, altri hanno insultato Chiara Nasti, facendo persino peggio (molto peggio) di quanto abbia fatto lei. E quindi insulti e offese volgari, il tutto – ovviamente – per difendere il calciatore, il campione, l’eroe del pallone. Dell’uomo, però, nessuna traccia.

Qualcuno ha preferito tagliare corto dicendo che, in fondo, si tratta di due ragazzi: hanno sbagliato entrambi, forse per immaturità o superficialità, quindi c’è ben poco da dire. Ma io credo, al contrario, che ci sia molto da dire. Penso, soprattutto, che questo fatto possa diventare l’occasione per accendere un riflettore su un argomento mai preso in considerazione: il body shaming sugli uomini. Che esiste e non è meno grave di quello subito dalle donne.

Se ne parla poco, suppongo, per una questione culturale: la donna è considerata il sesso debole, un essere fragile, indifeso, un’eterna vittima che ha bisogno della protezione dell’uomo, che invece è virile, forte, mai esitante. Quindi, se la vittima è una donna, è più facile provare empatia e solidarietà; se la vittima è un uomo, invece, la violenza che subisce diventa semplice goliardia, dunque niente di serio, qualcosa di trascurabile.

Stiamo facendo (non senza fatica) piccoli passi verso l’emancipazione da certe convinzioni (e convenzioni), ma non siamo ancora arrivati a capire che la violenza (in questo caso del body shaming) è tale a prescindere da chi sia la vittima. Sì, lo so, esistono «cose più importanti» del commento cafone e gretto di una influencer verso il proprio ex fidanzato, ma io non parlo (solo) del fatto in sé, che è da condannare, ma della percezione che si ha di tale fatto.

La violenza, comunque si esprima, va condannata sempre. E condannare non significa invadere gli spazi social della Nasti con insulti e attacchi inaccettabili. Significa prendere coscienza del fatto che una vittima sia sempre vittima. Significa diventare sensibili rispetto a cose che non consideriamo gravi o pericolose. Significa empatizzare anche con chi soffre qualcosa che noi non percepiamo come una violenza. Significa, infine, considerare vittima anche chi, per una questione culturale, si pensa non possa mai essere vittima.

Proviamo ad abbattere un cliché, proviamo ad andare oltre le convinzioni e le convenzioni a cui siamo abituati. Proviamo a riconoscere i comportamenti sbagliati sempre, in ogni contesto, senza giustificarli, minimizzarli o trattarli con superficialità. Solo così potremo darci l’opportunità di emanciparci, di crescere e di diventare consapevoli di quanto possa ferire gli altri quello che noi non consideriamo neppure lontanamente sbagliato.

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