Il monologo della giornalista Rula Jebreal sul palco dell'Ariston, nella prima serata del Festival di Sanremo racconta il femminicidio in chiave personale.
“Domani chiedetevi come erano vestite le conduttrici di Sanremo ma non chiedete mai più come era vestita ad una donna che è stata stuprata. Mia madre non ha avuto la forza di affrontare quella domanda”. Parole che sembrano lame, riflessioni che fanno commuovere in una serata di lustri e paillettes. Il monologo della giornalista Rula Jebreal sul palco dell’Ariston, nella prima serata del Festival di Sanremo, scritto assieme alla giornalista Selvaggia Lucarelli, racconta il femminicidio in chiave personale.
“Dirò cose- aveva annunciato durante la conferenza stampa del Festival- che non ho mai avuto il coraggio di raccontare nemmeno a me stessa fino a quarant’anni”. E trattenendo a stento le lacrime, la giornalista racconta il suicidio della madre, abusata per anni.
“Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato il luogo della sua tortura perché mia madre fu brutalizzata e stuprata due volte: a tredici anni da un uomo, poi da un sistema che l’ha costretta al silenzio, perché le ferite sanguinano di più quando non sei creduta. L’uomo che l’ha violentata per anni era con lei mentre le fiamme divoravano il suo corpo. Aveva le chiavi di casa”.
Un monologo che alterna le sue riflessioni alle citazioni di importanti canzoni sulle donne tutte scritte da uomini. Da “La Cura” di Battiato a “La donna cannone” di De Gregori, da “Sally” di Vasco a “C’è tempo” di Fossati.
“Negli ultimi tre anni 3 milioni 150 mila donne hanno subito violenza sul posto di lavoro, negli ultimi due anni in media 8 donne al giorno hanno subìto abusi sessuali e violenza, una ogni 15 minuti. “Nell’80 per cento dei casi il carnefice ha le chiavi di casa, ci sono le sue impronte sullo zerbino, il segno delle sue labbra sul bicchiere”.
Festival di Sanremo: il video di Rula Jebreal
https://www.youtube.com/watch?v=vdL9uf4vd38
Festival di Sanremo 2020: monologo di Rula Jebreal
-Lei aveva la biancheria intima quella sera?
-Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?
-Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans?
-Se le donne non vogliono essere sfruttare devono smetterla di vestirsi da poco di buono.
Queste sono solo alcune delle domande poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale. Domande insinuanti, melliflue, che sottintendono una verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti. Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi, perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo tropo belle o troppo brutto perché eravamo troppo disinibite e ce la siamo voluta.
“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo. Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te.”
Sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine. La sera, una per volta, noi bambine raccontavamo una storia, le nostre storie. Erano una specie di favole tristi. Non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano. Ci raccontavamo delle nostre madri: torturate, uccise, violentate. Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme di quelle parole di dolore. Io amo le parole. Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore. Anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri. E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana. E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina.
“Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno
Giuro che lo farò
E oltre l’azzurro della tenda nell’azzurro io volerò
Quando la donna cannone d’oro e d’argento diventerà
Senza passare dalla stazione
L’ultimo treno prenderà”.
Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua tortura. Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa.
“Sally ha patito troppo
Sally ha già visto che cosa. Ti può crollare addosso
Sally è già stata punita per ogni sua distrazione o debolezza
Per ogni candida carezza
Data per non sentire l’amarezza”
Quante volte siamo state Sally? Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, cercò salvezza nella musica. “Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma”, recitava nel suo potente monologo “Lo stupro”, in cui ripercorreva quel fatto drammatico. Le parole delle canzoni possono essere messaggi d’amore e di salvezza. Io sono diventata la donna che sono perché lo dovevo a mia madre, lo devo a mia figlia che è seduta in mezzo a voi. Lo dobbiamo tutte, tutti, a una madre, una figlia, una sorella, al nostro paese, anche agli uomini, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza. All’idea più grande di tutte: quella di libertà.
Parlo agli uomini, adesso. Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e carrieriste, madonne e puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne. Siate nostri complici. E quando qualcuno ci chiede “Lei cosa ha fatto per meritare ciò che è accaduto?”
“C’è un tempo bellissimo, tutto sudato
Una stagione ribelle
L’istante in cui scocca l’unica freccia
Che arriva alla volta celeste
E trafigge le stelle
È un giorno che tutta la gente
Si tende la mano
È il medesimo istante per tutti
Che sarà benedetto, io credo
Da molto lontano”.
Sono stata scelta stasera per celebrare la musica e le donne, ma sono qui per parlare delle cose di cui è necessario parlare. Certo ho messo un bel vestito. Domani chiedetevi pure al bar “Com’era vestita Rula?”.
Che non si chieda mai più, però, a una donna che è stata stuprata: “Com’era vestita, lei, quella notte?”.
Mia madre ha avuto paura di quella domanda. Mia madre non ce l’ha fatta. E così tante donne. E noi non vogliamo più avere paura. Vogliamo essere amate.
Lo devo a mia madre, lo dobbiamo a noi stesse, alla nostre figlie. Nessuno può permettersi il diritto di addormentarci con una favola.Vogliamo essere note, silenzi, rumori, libere nel tempo e nello spazio. Vogliamo essere questo: musica.
Leggi anche:
- Diodato, il cantautore che svela le fragilità umane e l’importanza di non tradire se stessi
- L’anno che verrà: dopo 40 anni l’intramontabile canzone di Lucio Dalla diventa un video carico di speranza
- La canzone di Marco Mengoni che celebra Frida Kahlo e la sua capacità di trasformare il dolore in bellezza