Lavori forzati per produrre i pannelli fotovoltaici cinesi: gli uiguri sono i nuovi schiavi dello Xinjiang

Il polisilicio dei pannelli fotovoltaici mondiali viene dalla regione cinese dello Xinjiang, in fabbriche dove hanno deportato e costretto alla schiavitù gli uiguri.

Emergono nuove evidenze delle deportazioni, dei trasferimenti coatti, dello sfruttamento e dei lavori forzati a cui sarebbero sottoposti i musulmani uiguri e altre minoranze etniche nella regione dello Xinjiang, nell’estremo nord-ovest della Cina. I dirigenti del partito comunista cinese hanno avviato nella regione una politica economica “opaca”, che molti ritengono sia funzionale ad un più ambizioso obiettivo di genocidio della minoranza musulmana e turcofona degli uiguri.

Due ricercatrici dell’Università di Sheffield (Regno Unito) hanno scoperto che gli uiguri dello Xinjiang sarebbero coercitivamente impiegati nella produzione di componenti essenziali per pannelli fotovoltaici (polisilicio) cinesi destinati ai mercati esteri.

Il polisilicio “incriminato”

Secondo quanto emerso da uno studio britannico pubblicato nel maggio 2021 e condotto dalle ricercatrici della Sheffield Hallam University, Laura T. Murphy e Nyrola Elimä, circa il 45% della fornitura mondiale di un componente chiave nella produzione di pannelli — il polisilicio — sarebbe prodotto nella provincia cinese dello Xinjiang.

In broad daylight

@Forced Labour Lab – Sheffield Hallam University

In Broad Daylight. Uyghur Forced Labour and Global Solar Supply Chain, titolo del rapporto dell’Helena Kennedy Center for International Justice della suddetta università britannica, afferma che i quattro principali produttori di pannelli del mondo acquistano polisilicio dalla Cina; la produzione di tale componente, purtroppo, è solo la punta dell’iceberg di un più vasto e occultato sistema di coercizione della minoranza degli uiguri residenti nel territorio cinese.

Le due autrici del rapporto hanno quindi esortato i produttori coinvolti a procurarsi il materiale altrove e, implicitamente, a boicottare l’illegale produzione cinese.

Tra le fonti documentali citate nel rapporto, figura un rapporto ufficiale del governo cinese pubblicato nel novembre 2020, nel quale si fa riferimento al “collocamento” di 2,6 milioni di cittadini di etnie minoritarie (uiguri e kazaki) per occupare posti di lavoro disponibili nelle fattorie e nelle fabbriche nello Xinjiang e in altre parti del paese, nell’ambito di iniziative pubbliche relative al “surplus di manodopera” e al “trasferimento di manodopera”.

Il governo cinese ritiene che tali programmi siano conformi alla legge statale e assicura che i lavoratori operano a titolo volontario, aderendo a progetti di iniziativa statale per la riduzione della povertà. Tuttavia, secondo le due autrici dello studio, vi sarebbero prove significative — tratte per la gran parte da fonti governative e aziendali — del trasferimento coatto di manodopera nella regione uigura in un clima di coercizione senza precedenti, aggravato dalla costante minaccia di rieducazione e internamento.

Una vera e propria riduzione in schiavitù di interi gruppi etnici della popolazione cinese. Un modus operandi legittimato e incentivato dall’aperto sostegno delle autorità cinesi. Nella maggior parte dei casi, i lavoratori locali che subiscono questi gravi soprusi non sono nelle condizioni di rifiutare o di abbandonare il posto di lavoro.

Lo Xinjiang e l’industria solare mondiale

Secondo il rapporto, l’industria del fotovoltaico sarebbe fortemente dipendente dalla pratica del lavoro forzato nella provincia dello Xinjiang, per il semplice fatto che il 95% di tutti i moduli solari si servono del polisilicio di grado solare, ottenuto dall’estrazione del quarzo.

Inoltre, gli stessi produttori di polisilicio attivi nella regione uigura (Daqo; TBEA e la controllata Xinte; Xinjiang GCL; East Hope) avrebbero confermato di aver preso parte a programmi di trasferimento di manodopera e di collocamento al lavoro e/o di essersi rivolti a fornitori di materie prime coinvolti in tali programmi.

Daqo è il fornitore-chiave dei quattro maggiori produttori di moduli fotovoltaici al mondo: JinkoSolar, Trina Solar, LONGi Green Energy e JA Solar. Considerata l’intera filiera produttiva cinese, i ricercatori avrebbero identificato undici società direttamente coinvolte nello sfruttamento del lavoro forzato, altre quattro che impiegano lavoro forzato all’interno di parchi industriali, e ben 90 compagnie cinesi e internazionali la cui filiera si intreccia con quella del polisilicio dello Xinjiang.

La condanna della comunità internazionale

La Cina è stata bersaglio della crescente condanna internazionale per il trattamento riservato ai musulmani uiguri, definito come genocidio. A carico del governo cinese pendono accuse di detenzioni di massa e gravi violazioni dei diritti umani, tra cui la sottoposizione a lavoro forzato, gli abusi sessuali e la sterilizzazione forzata delle donne delle minoranze etniche perseguitate nello Xinjiang.

Nel marzo scorso, Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Unione europea hanno imposto sanzioni a funzionari cinesi ritenuti responsabili di violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. La Cina ha reagito imponendo sanzioni dirette a funzionari europei.

Pechino ha bisogno di tenere in pugno la regione autonoma dello Xinjiang sia perché essa funge da porta d’accesso via terra all’Asia centrale e all’Europa, sia per le sue ingenti risorse, tra cui il  cotone. Proprio nello Xinjiang si concentra infatti il 20% della produzione mondiale di cotone, localizzata in fabbriche tessili dove gli uiguri sono costretti al lavoro forzato.

Ne è sorta una campagna internazionale di pressione, la Call to action on human rights abuses in the Uyghur Region in the apparel and textiles sector, promossa da una coalizione di organizzazioni della società civile e sindacati. La dura riposta di Pechino, con minacce di ritorsioni a chi vi avesse aderito, ha costretto i grandi marchi dell’abbigliamento mondiale ad allinearsi al governo cinese per non rischiare di perdere il profittevole mercato cinese.

Infine e non da ultimo, esiste anche una campagna di boicottaggio dei giochi olimpici invernali previsti in Cina nel 2022, #BoycottBeijing2022, proprio per dire “no” al genocidio degli uiguri musulmani dello Xinjiang.

Fonti: Sheffield Hallam University-Helena Kennedy Center for International Justice/BBC

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