Perché la confessione in diretta di un omicidio è il fallimento della nostra società

L’ammissione di aver commesso un omicidio avvenuta in tempo reale, in un contesto di diretta televisiva, senza un filtro o una riflessione approfondita. Analisi di un tempo, il nostro, in cui ci piace rovistare nelle cose altrui e curiosare dal buco della serratura, per poi gridare allo scandalo solo in un secondo momento. Quando ormai il danno è fatto

L’ha ammazzata e poi ha confessato. Non davanti a un giudice no, ma dinanzi a una telecamera. Particolarmente sconvolto, certo, e anche fuori di sé, ma anche con la lucidità di fornirci dovizia di particolari: il cuscino, la federa, i lacci. Lui è L.C., un uomo di 50 anni della provincia di Modena, che nel bel mezzo di uno dei programmi più popolari dei pomeriggi delle anziane signore – Pomeriggio 5, della giornalista Myrta Merlino – ha confessato di punto e in bianco di avere ucciso la madre.

L’intervista è andata in onda quasi per intero (Myrta Merlino ha precisato di aver fatto tagliare le parti più crude, con i particolari di come era avvenuto l’omicidio) – e ovviamente postata immediatamente sui social del programma – e poco dopo l’uomo è stato arrestato.

La donna, la madre di L.C., era stata trovata morta nella serata di domenica 22 settembre e da allora le autorità erano sulle tracce dell’uomo. Poi pare che proprio l’inviato di Canale 5, Fabio Giuffrida, abbia notato quel signore di mezza età in stato confusionale aggirarsi per la zona dove la troupe si trovava.

Sì sono io, sono quello che cercate, dice L.C.

E non finisce lì. Non si spengono le telecamere, non si cercano le forze dell’ordine. No. Il giornalista che aveva fiutato lo scoop incalza con la domanda: “L’hai uccisa tu?”

E L.C. annuisce. Fa sì con la testa, sudato e tremante.

E ancora il giornalista simil poliziotto e psicologo: “Ma ci spieghi cos’è successo ieri? Cosa ti è passato per la testa?

Non ce la facevo più, non riuscivo a gestirla.

Ma niente. Tutto ciò non basta a zittire tutti. Si va avanti, fin quando L.C. non racconta per filo e per segno come abbia assassinato la mamma, mentre gli ascoltatori aumentano, l’audience si gonfia, i clic anche, cresce la curiosità famelica da alimentare ancora e ancora, sul finire di quest’estate già segnata dalla storia dell’omicidio di Sharon Verzeni scandagliata in ogni suo macabro particolare.

Chiuso quel caso, la gente ha bisogno di attaccarsi morbosamente a un altro, mentre sulle piattaforme le serie dedicate a Yara e a Sara Scazzi vanno per la maggiore. Da che io ho memoria, dal delitto di Cogne a quello di Perugia, passando per quelli di Garlasco e Novi Ligure, è stato un crescendo di una autentica spettacolarizzazione del crimine tramite i mass media. Non tutti: la TV non esamina quasi mai i femminicidi, per dire – forse tranne quelli sconvolgenti di Giulia Tramontano e Giulia Cecchettin e in ogni caso per un motivo pietistico e non di più -, ma solo quelli che appagano l’interesse maniacale di tanti per il lato oscuro e latente nell’inconscio di ognuno.

Un circolo vizioso che poi dall’altro lato alimenta chi di questa spettacolarizzazione si dice disgustato, come danno a vedere parecchi commenti:

commenti twitter

@Pomeriggio 5/X

Cosa muove tutto questo?

Perché la confessione in diretta di un assassinio è il fallimento della nostra società

L’episodio della confessione in diretta televisiva di L.C., che ha ammesso un omicidio davanti a milioni di telespettatori, non è solo un dramma personale, ma un evento che rivela una serie di problematiche sociali profonde. È il risultato di una complessa interazione tra la crisi dell’individuo, l’evoluzione dei media e la trasformazione delle dinamiche sociali, che merita un’analisi attenta per comprendere come abbiamo potuto dare spazio a una distorsione così estrema.

La spettacolarizzazione e la ricerca dell’attenzione

Viviamo in un’epoca in cui i media, soprattutto i social, hanno radicalmente trasformato il nostro rapporto con la realtà e con noi stessi. La “società dello spettacolo” come descritta dal filosofo Guy Debord (che, attenzione, è del finire degli anni ’60), ha ridotto la vita umana a una sequenza di immagini e rappresentazioni, dove l’apparire ha preso il posto dell’essere.

In questo contesto,  molti potrebbero affermare che la confessione in diretta di un crimine così grave può essere il tentativo dare visibilità alla propria esistenza, di emergere dall’anonimato, anche a costo di svelare il lato più oscuro di sé.

La solitudine dell’individuo moderno

A quel tentativo si ricollega, quindi, la sua causa principale, la solitudine dell’individuo contemporaneo. In una società in cui i legami sociali tradizionali si sono indeboliti e la comunità ha perso il suo ruolo di supporto, spesso ci si trova spesso isolati, senza punti di riferimento. Per alcuni, la televisione diventa un mezzo per sentirsi ascoltati, per colmare un vuoto che nella vita reale sembra incolmabile. La mancanza di reti sociali solide e di spazi di ascolto e comprensione può portare a gesti estremi come questo, dove la confessione pubblica diventa un modo distorto di cercare comprensione.

Un altro aspetto fondamentale è la progressiva erosione del confine tra sfera privata e sfera pubblica. In un’epoca in cui tutto è condiviso e trasmesso, l’idea stessa di privacy è stata profondamente trasformata. La necessità di esporre i propri sentimenti e le proprie esperienze, anche le più intime e drammatiche, è ormai parte integrante della cultura contemporanea. La confessione di L.C. in diretta, quindi, non è solo l’ammissione di un crimine, ma anche un segnale della difficoltà, per l’individuo moderno, di distinguere tra ciò che è privato e ciò che è pubblico.

La morbosità mediatica e la sospensione dell’etica

Ultimo e non ultimo il ruolo dei media in questo contesto. La TV, da sempre affamata di audience, ha spinto al limite il confine tra informazione e spettacolo. Il fatto che una confessione così agghiacciante sia avvenuta in diretta è sì la scelta dell’uomo (seppur davvero in difficoltà), ma anche di un sistema mediatico che ha reso la sofferenza umana un contenuto da vendere. Questo fenomeno è un riflesso della nostra morbosità collettiva, della nostra incapacità di distaccarci dalla tragedia altrui, attratti da un perverso bisogno di vedere e giudicare.

E stamattina alla mia domanda a una mia collega che si occupa di cronaca per programma televisivi:

XXX, Avresti fatto le stesse domande di Giuffrida?

Certo! Ragazzi facciamo cronaca nera, non pettiniamo le bambole…

Come a dire: è la stampa, bellezza. E il circo mediatico non avrà fine.

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