Non solo fast fashion: la condanna di Elisabetta Franchi è solo la punta dell’iceberg dei diritti negati per le donne in Italia

La maternità viene descritta come un momento magico nella vita di una donna e di una coppia, ma la realtà dei fatti purtroppo dice altro soprattutto in Italia dove diminuiscono costantemente il tasso di natalità e le opportunità per chi decide di avere dei figli. E questo non riguarda solo il settore della moda che, però, da troppo tempo non riesce a conciliare produttività e diritti dei lavoratori del tessile. Il caso Franchi è solo la punta dell'iceberg di una serie di problematiche interconnesse tra loro...

Le ultime settimane per Elisabetta Franchi sono state all’insegna delle polemiche e dei tribunali. Una vicenda che è la punta dell’iceberg di mondi tra loro connessi: quello della moda che non può fermarsi e deve produrre h24, come una qualunque azienda del fast-fashion locata in zone per noi remote; ma anche quello delle donne che odiano le donne introiettando degli archetipi maschili centenari; i diritti negati alle donne come quello di poter conciliare lavoro e maternità.

Elisabetta Franchi perde in tribunale

Si chiama Betty Blue, l’azienda di Elisabetta Franchi che è stata condannata per comportamento antisindacale dal tribunale del lavoro di Bologna. La controversia era emersa sul finire del 2021 mentre la società stava vivendo un momento d’oro: la ripresa delle attività post pandemia con ricavi superiori ai 120 milioni di euro, la decisione di volersi quotare in borsa, il premio Ernest&Young alla Franchi come migliore imprenditrice nazionale.

 

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Ma cosa era successo? La società aveva imposto alle lavoratrici della fabbrica di Granarolo l’allungamento dell’orario di lavoro per soddisfare il picco di ordini. Alcune dipendenti avevano deciso di scioperare contro gli straordinari del sabato.

La Filcams-Cgil si era schierata al fianco di queste donne che sono state colpite da un provvedimento disciplinare per essersi opposte alle richieste di lavoro extra.

L’azienda aveva affermato di non comprendere questo comportamento definito ingiustificato e pretestuoso accanimento nei confronti del brand: prima la contestazione della cassa integrazione poi sulla possibilità di ricevere uno stipendio più alto. La Filcams-Cgil aveva presentato un ricorso per comportamento antisindacale, riconosciuto come tale dalla Giudice del Lavoro di Bologna Chiara Zompi.

Moda e diritti

È sicuramente il settore del fast-fashion, con la velocità che lo contraddistingue, quello maggiormente osservato per via dell’intricato reticolo di appalti e subappalti in paesi come India e Cina, dove si producono la gran parte degli indumenti, e realtà fatte di fabbriche fatiscenti, senza finestre o norme igieniche rispettate, dove soprattutto le donne sono ammassate nelle varie linee di produzione, vessate dai datori-aguzzini tra orari di lavoro massacranti e molestie sessuali.

La mancanza di una legge di settore transnazionale permette di continuare in questo modo. Cose che avevamo visto anche a Prato anni fa e che ci aveva indignato e dove, ancora oggi, le cose non vanno benissimo: sono in atto scioperi in 5 aziende – per ora – per la fine del regime di lavoro delle 12 ore su 7 giorni, la negazione di ogni diritto e dei licenziamenti ingiustificati via WhatsApp.

Dalle inchieste e denunce continua a emergere un quadro poco edificante del settore moda che ha delle evidenti difficoltà a conciliare produttività e diritti dei lavoratori che coinvolge i brand più esclusivi.

 

Donne vs Donne

Per la seconda volta nel giro di poche settimane la Franchi si è ritrovata così al centro di polemiche in merito all’argomento lavoro e donne. Contestata, questa volta, dalle stesse donne che le hanno permesso di portare avanti il sui sogno e di diventare l’imprenditrice osannata sui social, nei panel aziendali, nei programmi tv con documentari che raccontano la vita non proprio facilissima della donna dietro un maschio il cui motto è “Se vuoi puoi”. Criticata da un pubblico più ampio dopo aver ammesso che le donne con cariche manageriali nella sua aszieda sono poche e tutte sopra i 40 perché hanno già fatto tutto, inteso come il trittico matrimonio-figli-divorzio e

sono lì come me h24

quindi sempre disponibili a rispondere e eseguire, con le loro esigenze messe in secondo piano.

I numeri del gender gap

“L’80% della mia azienda sono quote rosa di cui il 75% giovani donne impiegate, il 5% dirigenti e manager donne. Il restante 20% sono uomini di cui il 5% manager” ha dichiarato la stilista sulle stories di Instagram con tanto di comunicato stampa per cercare di frenare l’ondata di commenti e reazioni al video diventato virale in pochi minuti. Ma questi numeri e le frasi pronunciate dalla stessa Franchi ci dicono forse che questa azienda non permette alle mamme di fare carriera?

 

 

In un paese in cui si diventa madri con difficoltà, in età sempre più avanzata e dove il tasso di natalità continua a decrescere queste affermazioni non sono certo un incoraggiamento.

L’Istat aveva offerto il quadro della natalità in Italia: con 399.431 nascite nel 2021 c’è stata una diminuzione dell’1,3% sul 2020 e del 31% rispetto al 2008. Il report diffuso da Save The Cildren “Le Equilibriste.

La maternità in Italia nel 2022” fotografa una situazione agghiacciante perché il peso di una famiglia è ancora sulle spalle delle donne: il 42,6% delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata mentre il tasso maschile segna un più 30%. L’impiego si trasforma in un contratto part-time per il 39,2% di donne con 2 o più figli minori. Nel primo semestre 2021, poco più di 1 contratto a tempo indeterminato su 10 è a favore delle donne.

Nel 2020 sono state più di 30mila le donne con figli a rassegnare le dimissioni per motivi familiari o per carenza dei servizi sul territorio o perché troppo costosi, tra questi gli asili nido. È così che continua a esistere il divario di redditi tra donne e uomini, in favore dei secondi, e ci fa pirtroppo familiarizzare con termini quali “motherhood penalty” o “child penalty gap” perché la maternità, sebbene osannata nel racconto popolare, è in realtà una penalizzazione lavorativa.

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FONTE: Istat/Save the Children/Elisabetta Franchi

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