Addio Nicolò, suicida a soli 21 anni: su TikTok il suo urlo di dolore inascoltato che ora è un macigno per tutti noi

Nicolò Fraticelli era un giovane tiktoker, morto suicida all'età di 21 anni: aveva chiesto aiuto, ma è stato tutto inutile.

Morire a ventun anni con i riflettori puntati addosso, eppure senza che nessuno abbia saputo guardare nella direzione che indicavano. Riflettevano il dolore di un ragazzo colpito da una malattia che, per molti, per troppi, è uno stato d’animo, «un periodo che poi passa», un momento difficile che «se ti distrai, passa più in fretta». Per qualcuno, addirittura, è un capriccio, un problema «di chi non ha problemi veri», un privilegio.

La salute mentale rappresenta ancora un tabù e tutte le malattie che riguardano la sfera psichica non vengono riconosciute come tali. Poi, se il tema della salute mentale viene associato ai giovani, il discorso diventa ancora più fumoso e superficiale, si piange il morto per un giorno, forse due, poi si aspetta il prossimo caso isolato. Ma, nel frattempo, si continua a morire di malattie mentali. Nel frattempo, i giovani continuano a morire di malattie mentali. E non perché siano deboli, insicuri, pigri, spaventati, fragili o sfaticati: muoiono perché sono malati.

Giovani e salute mentale sono due temi bistrattati, ma rappresentano un’emergenza vera, tangibile. Un’emergenza che riguarda tutte e tutti e che rimarrà tale finché ognuno di noi non farà la propria parte, cambiando la narrazione che facciamo dei giovani e delle malattie mentali.

La storia di Nicolò Fraticelli, che si è tolto la vita a 21 anni

Ha chiesto aiuto, si è visto voltare le spalle, ha chiesto un’altra volta comprensione, vicinanza, ma non è servito a niente. Così si è tolto la vita, a ventun anni. Questa è la storia di Nicolò Fraticelli, un giovane creator di TikTok, che sul noto social network ha parlato del dolore che provava, nonostante avesse abituato i suoi numerosi follower a video ironici e leggeri. Poi, però, si è tolto “la maschera”, per sua stessa ammissione, e ha mostrato il dolore che sentiva. La sua richiesta d’aiuto, tuttavia, è rimasta inascoltata.

Potremmo prenderla alla larga e incolpare di tutto i social, dove il dolore è contemplato solo se è spettacolare, altrimenti è un rumore di fondo che nessuno sente; solo se è esibito, ben confezionato, conforme ai diktat dei social, dove la sofferenza è un contenuto e i contenuti, si sa, devono essere appetibili. Se il dolore è sussurrato, annoia o addirittura non viene riconosciuto. Tutto ha una regola, sui social, e la prima è che non basta soffrire, bisogna saper soffrire bene, altrimenti è tutta fatica sprecata.

Potremmo prendercela con i genitori, domandarci «Dov’erano? Perché non se ne sono accorti?», con gli amici, gli insegnanti, i colleghi di lavoro, i vicini di casa, il giornalaio di fiducia. Fateci caso: ce la prendiamo con tutti, ma non ci assumiamo mai la responsabilità di essere parte di una società che vive attraverso di noi. Ci è estraneo tutto quello che non ci piega. Ci è amico ogni meccanismo che sappia creare una distanza tra noi e il cattivo della storia: il genitore distratto, che avrebbe dovuto accorgersene ma non l’ha fatto, l’amico superficiale, che avrebbe potuto stargli vicino ma ha preferito fare altro, persino il vicino di casa, che qualche volta lo incontrava per le scale e non gli chiedeva mai come stesse.

Abbattere il tabù sulla salute mentale: perché è così difficile?

È sempre l’altro, il cattivo della storia, e noi ci assolviamo perché «non lo conoscevo», «io non uso TikTok», «ormai i giovani stanno tutti male». E se provassimo a cambiare narrazione? E se provassimo a dirci non colpevoli, ma responsabili? Se provassimo a parlare delle malattie mentali esattamente come facciamo per quelle fisiche? E se provassimo a parlare dei giovani ricordandoci del mondo che abbiamo consegnato loro? Ma, soprattutto, se provassimo a non considerare la morte di tanti giovani come fossero casi isolati, ma come un’emergenza che ci riguarda da vicino? I giovani sono il futuro, ma in una società che fa credere loro di avere a disposizione tutti i futuri che vogliono, la verità è che ne hanno uno soltanto, ed è stropicciato, derelitto, zoppicante. Vuoto.

Prenderci la nostra responsabilità vuol dire abbattere il tabù che c’è sul tema delle malattie mentali: è tanta la gente convinta che ci sia una sorta di linea di demarcazione tra le cosiddette malattie “vere” e quelle che, a detta loro, sono un capriccio, qualcosa di frivolo, se non addirittura un vezzo, un problema di chi «non ha problemi veri». In altre parole, secondo molti, le malattie fisiche esistono, mentre quelle mentali sono una scelta. Non solo non è così (e non dovrebbe servire sottolinearlo), ma è pericoloso non fermare questa convinzione, perché chiunque può soffrire di una malattia mentale. E il primo strumento per guarire è capire che si tratti proprio di una malattia, non di «una fase di passaggio», non di «un momento di fragilità», non di «un periodo che capita a tutti, basta non pensarci».

Dovremmo iniziare a parlare meglio, anzi, dovremmo proprio iniziare a parlare di salute mentale, dell’importanza della cura della psiche, di come vada allenata e tenuta salda. La salute mentale è parte integrante della salute fisica e del benessere di una persona, non esiste – tra loro – una separazione netta né è possibile che l’una non risenta del malessere dell’altra.

Parlare dei giovani vuol dire parlare di futuro

E poi ci sono i giovani, di cui si parla tanto, ma sempre con (pre)giudizio. I giovani «non fanno sacrifici», «sono arrendevoli», «sono pigri», sono – in altre parole – sbagliati, difettosi, da correggere, da rimettere in riga. Mai da ascoltare. E qui, lo ammetto, temo che sia tutta una questione di paura: ci spaventano, questi giovani che non hanno più intenzione di assecondare gli sbagli che abbiamo fatto.

Ogni tanto leggo «I giovani di oggi non hanno voglia di fare sacrifici», dove per “fare sacrifici” si intende sottomettersi, annullarsi, omologarsi, privarsi di qualcosa, a volte persino della propria dignità. Ma meno male che non hanno voglia di sacrificarsi, i primi ad esserne contenti dovrebbero essere proprio gli adulti che li hanno fatti. I sacrifici non danno nulla. L’impegno, lo studio, la conoscenza (di sé, prima che di tutto il resto), l’autodeterminazione: tutto questo dà qualcosa. Come se non bastasse, il sacrificio non restituisce niente, solo tanti, insopportabili rimpianti.

Credo che gli adulti siano spaventati dai giovani che non temono di parlare delle proprie fragilità, che abbattono lo stereotipo machista dell’uomo che non deve spezzarsi mai, che non deve piangere, che non deve essere frangibile; lo stereotipo della donna che deve restare dove la cultura l’ha confinata, da parte, in silenzio. Non romanticizzano più certe tipologie di amore che d’amore non hanno niente. Credo, in altre parole, che gli adulti siano spaventati dall’eventualità che i giovani siano liberi, che scoprano che c’è una vita al di là dei confini che hanno messo loro.

Ecco, possiamo fare qualcosa per i giovani: prenderci la responsabilità di ascoltarli, di essere adulti per davvero. E essere adulti per davvero vuol dire sapere imparare ancora. Sapere imparare meglio. Saper guardare dove ci chiedono di guardare. Togliere i pregiudizi e accogliere il cambiamento, poi farne un’opportunità, che i giovani fanno il futuro per tutti, anche per chi è già adulto e ne ha un po’ di meno.

Scusaci, Nicolò, per questa società che non è stata pronta ad ascoltarti. Scusaci, se non abbiamo fatto del nostro meglio. Purtroppo si smette in fretta di essere giovani e ci si dimentica di com’era avere rabbia e ragione. Ci è rimasta la rabbia, ma siamo passati dalla parte di chi ha torto.

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