Il lato oscuro della transizione energetica: lavoratori e bambini ridotti a schiavi per produrre pannelli solari e turbine eoliche 

Costretti a turni estenuanti (a volte anche di oltre 12 ore) per estrarre metalli dalle miniere e fabbricare materiali necessari per la produzione di pannelli solari, batterie per auto elettriche e turbine eoliche: sono i nuovi schiavi - molti dei quali minorenni - sfruttati in nome della transizione energetica. No, non è questo il cambiamento green che vogliamo.

Fortunatamente il settore delle rinnovabili è in espansione in tutto il mondo. Sono sempre di più i Paesi che scelgono di investire in energia pulita per abbattere i costi e dipendere meno dai combustibili fossili (anche se il percorso è ancora lunghissimo in nazioni come l’Italia). Ma c’è un ma. Da dove arrivano i pannelli solari, le turbine eoliche e gli altri dispositivi necessari per la transizione energetica? In diversi casi dietro la loro produzione si nascondo drammatiche storie di sfruttamento.

Ad accendere un faro su questo tema spinoso è un report pubblicato dal Clean Energy Council, una rete che unisce aziende australiane che operano nel settore delle energie rinnovabili.

L’Australia è sulla buona strada per produrre la stragrande maggioranza dell’elettricità grazie all’energia solare, eolica, idroelettrica e da batterie entro il 2030, ma è importante che questo cambiamento avvenga in modo giusto ed equo – sottolinea Nicholas Aberle, direttore delle politiche per l’energia del Clean Energy Council – Come per molti altri prodotti moderni onnipresenti nella vita di tutti i giorni, le tecnologie per le energie rinnovabili possono avere lunghe catene di approvvigionamento che sono collegate in vari punti alla schiavitù moderna.

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Gli “schiavi moderni” al servizio delle energie rinnovabili

Se ne parla ancora molto poco, ma in aree del Pianeta come la Cina, l’Africa e il Sud America decine di migliaia di persone – compresi minori – vengono sfruttate in modo disumano per estrarre metalli richiestissimi come il Cobalto e Litio, usati per realizzare le batterie o nelle fabbriche in cui si produce il polisilicio, materiale utilizzato per la fabbricazione dei pannelli solari.

In particolare gran parte del polisilicio proviene dalla regione cinese nord-occidentale dello Xinjiang, da fabbriche in cui vengono deportati e costretti alla schiavitù gli Uiguri (etnia di religione islamica) e altre minoranze etniche.

Secondo uno studio indipendente realizzato lo scorso anno da due ricercatrici dell’Università di Sheffield (UK), l’industria del fotovoltaico è fortemente dipendente dalla pratica del lavoro forzato che caratterizza quella zona della Cina, dato che il 95% di tutti i moduli solari si servono del polisilicio di grado solare, ottenuto dall’estrazione del quarzo.

Gli stessi produttori di polisilicio attivi nella regione cinese hanno confermato di aver preso parte a programmi di trasferimento coatti ed essere stati spinti verso il lavoro forzato in fabbriche in cui i diritti vengono costantemente messi sotto i piedi. A confermare questo terribile scenario anche un recente rapporto dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani in cui si parla di “gravi violazioni dei diritti umani” nello Xinjiang, connessi alla produzione del polisilicio.

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La situazione non è molto più rosea se si guarda al settore delle batterie impiegate per i veicoli elettrici (ma anche per gli smartphone e altri dispositivi elettronici). Il cobalto è un componente fondamentale delle batterie al litio e questo minerale richiestissimo viene estratto in miniere di Paesi molto poveri come la Repubblica Democratica del Congo. E le principali vittime di questo spietato sfruttamento sono bambini e ragazzini. Secondo le stime di Amnesty International, sono circa 40.000 i minori ridotti in schiavitù nelle miniere (illegali) di questo Stato.

Nel silenzio generale, sono costretti ad estrarre il metallo a mani nude (in alcuni casi anche per oltre 12 ore), senza alcuna protezione, andando incontro a seri problemi di salute e al rischio di incidenti.

Infine, a causa dell’espansione del settore dell’energia eolica è aumentata la domanda di legno di balsa, materiale impiegato per costruire le pale delle turbine. Questo materiale proviene principalmente da Paesi del Sud America come l’Ecuador e il Perù, in cui le condizioni dei lavoratori sono disastrose e capita che vengano pagati con alcol o droga invece di ricevere compensi in denaro. La domanda legata al legno di balsa, inoltre, sta contribuendo alla deforestazione della foresta amazzonica e sta avendo un impatto negativo sui diritti delle comunità indigene.

Sulla questione dello sfruttamento nell’ambito delle energie rinnovabili è intervenuto James Cockayne, Commissario australiano anti-schiavitù del New South Wales, spingendo le istituzzoni di tutto il mondo a pretendere più trasparenza e ad affrontare questa piaga.

È necessaria un’azione urgente per affrontare i gravi rischi di schiavitù moderna nelle catene di approvvigionamento e negli investimenti australiani di energia rinnovabile. – ha commentato riferendosi al report del Clean Energy Counci ,– Questo rapporto è un importante e gradito riconoscimento di questo problema e un primo passo per affrontarlo. Ma abbiamo bisogno di vedere le aziende, il Governo, il settore finanziario e la società civile lavorare insieme per fornire l’accesso a energia rinnovabile a costi competitivi e senza schiavitù. Se non lo facciamo, la schiavitù moderna rischia di complicare in modo significativo la giusta transizione verso un’economia decarbonizzata.

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Fonti: Clean Energy Council/Amnesty International 

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