Dal mondo dello sport due segnali in forma di protesta verso un Paese che in fatto di diritti civili è ancora molto indietro.
“Agiamo invece di parlare”: così dal mondo dello sport arrivano due chiari segnali in forma di protesta verso un Paese che sembra all’avanguardia, ma che in fatto di diritti civili è ancora molto indietro
Dal 2019 possono viaggiare da sole e dal 2018 anche guidare un’auto: una serie di diritti riconosciuti dopo non poche torture e in un contesto di dura repressione, soprattutto su decine di attiviste che hanno coraggiosamente lottato per reclamare la libertà delle donne saudite nel corso degli anni. Ma, per le donne in Arabia Saudita, c’è ancora molto da fare e quei piccoli passi compiuti negli ultimi mesi potrebbero essere solo uno specchietto delle allodole. Perché?
Perché donne e ragazze, qui, continuano a subire discriminazioni nella legge e nella prassi in relazione al matrimonio, al divorzio e all’eredità e sostanzialmente sono rimaste inadeguatamente protette dalla violenza sessuale e da altre forme di violenza.
Coloro che avevano subìto abusi domestici hanno continuato a necessitare del permesso di un tutore maschio per lasciare i rifugi, scrivono da Amnesty.
E le donne sono le uniche a subire discriminazioni. Anche l’omosessualità è rimasta vietata in Arabia Saudita, punibile con la fustigazione e la reclusione, con addirittura il rischio dell’esecuzione pubblica. Ne è esempio il difensore dei diritti Lgbti yemenita Mohamed al-Bokari, condannato a 10 mesi di carcere seguiti dall’espulsione in Yemen, per accuse relative a violazione della moralità pubblica, promozione dell’omosessualità online e imitazione delle donne. Era stato arrestato dopo essere apparso in un video in cui difendeva le libertà personali delle persone Lgbti.
Due sfaccettature, quindi, di un mondo simile e parallelo, per certi aspetti l’uno rientrante nell’altro. Da un lato le donne e le ragazze, dall’altro la comunità Lgbti+. Cosa fare allora? Parlarne, mettere il discorso in mezzo. Anche nello sport, seguito da milioni di persone nel mondo. Sai mai che si smuova qualcosa.
E lo hanno fatto egregiamente due campioni della Formula1. Loro sono Lewis Hamilton, 36enne britannico sette volte campione del mondo che si sta giocando il titolo mondiale, e Sebastian Vettel, quattro volte campione del mondo, ex Ferrari che oggi corre a bordo della Aston Martin.
Il primo ha deciso di andare in pista sostenendo la battaglia per i diritti Lgbtqi+ e, come già aveva fatto già in Qatar, di indossare un casco realizzato con i colori dell’arcobaleno.
We Stand Together e Love is Love, questi i due slogan che per l’occasione il pilota inglese ha utilizzato in sostituzione del suo ormai celebre Still We Rise.
Ho deciso di utilizzare lo stesso casco che ho indossato in Qatar e probabilmente farò così anche per la gara di Abu Dhabi – ha detto Hamilton, non ho ricevuto commenti contrari al riguardo. Sul retro ci sono le scritte perché per me è importante rappresentare quella comunità. So che ci sono determinate situazioni che devono essere evidenziate. Spero che qualcuno si unisca a me, mi piacerebbe sapere qualcosa di più su ciò che sta accadendo qui.
Comunque non è stata una mia scelta essere qui – spiega – e non mi sento a mio agio. Ma lo sport ha deciso in questo modo, così ho pensato che almeno sarebbe stato giusto sensibilizzare l’opinione pubblica su questo argomento che mi sta così a cuore.
E non è l’unico. A tentare di smuovere le acque ci ha pensato anche Vettel che, a poche ore dall’inizio del weekend dello Jeddah Corniche Circuit, lo scorso 2 dicembre, ha noleggiato una pista di kart pilotando insieme con otto piloti-donne saudite di vari livelli di abilità, dalla pilota esperta a ragazze che non hanno neanche la patente.
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È stato un modo divertente per promuovere i valori che sono importanti per me. Ho ospitato otto giovani donne della zona intorno a Jeddah. È stato davvero bello incontrarle.
Due grandi esempi di solidarietà, che arrivano dopo che i funzionari del Paese sono stati accusati da numerosi gruppi per i diritti umani di “sportwashing” – dopo che un rapporto di Grant Liberty ha scoperto che 1,5 miliardi di dollari sono stati spesi proprio in eventi sportivi di alto profilo – dai campionati di scacchi al golf, dal tennis alle corse dei cavalli per migliorare la reputazione del Paese.
Anche la Formula1? Sì, anche la Formula1. Vettel ed Hamilton, allora, sono andati a punzecchiare gli intenti del principe ereditario Mohammed bin Salman? Grandi gesti, certo, ma noi diciamo siano solo una goccia in mezzo all’oceano se domani i giornali non ne parleranno più.
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