L’analisi degli scarti alimentari di questa comunità aborigena australiana dimostra che la simbiosi fra umani e natura è possibile (anche per decine di millenni)

Gli archeologi hanno analizzato i resti di cibo risalenti a diverse epoche per comprendere meglio le dinamiche di adattamento della comunità Bininj

I Bininj sono un popolo aborigeno australiano della terra di Arnhem occidentale nel Territorio del Nord. Nella loro lunga storia sulla Terra, durata oltre 65.000 anni, questi aborigeni sono più volte tornati al rifugio roccioso Madjedbebe, nella regione di Kakadu, trovando ogni volta un ambiente radicalmente diverso.

Malgrado questo, gli aborigeni sono stati in grado di adattarsi al territorio che mutava e a riuscire ogni volta a ricavarne gli elementi necessari alla sopravvivenza, come le risorse alimentari.

Un gruppo di ricercatori si è interessato alle capacità di adattamento e di resilienza di questa comunità, analizzando come è stata in grado di rispondere ai cambiamenti del sito, partendo dall’analisi di antichi frammenti vegetali carbonizzati per effetto della cottura a scopi alimentari.

Il rifugio roccioso di Madjedbebe è una sorta di grotta lunga circa 50 metri e scavata nell’arenaria. Il pavimento della grotta è ricco di cenere, effetto di centinaia di falò accesi in questo sito, e disseminato di macine e altri utensili in pietra; alle pareti si possono ammirare esempi di arte rupestre – alcuni di migliaia di anni, altri più recenti.

Come abbiamo detto, la regione è cambiata molto nel corso dei secoli. 65.000 anni fa, durante il periodo glaciale denominato MIS4, il livello del mare era molto più basso rispetto ad oggi e la grotta si trovava ai margini di una vasta pianura nella savana.

Alla glaciazione ha fatto poi seguito un periodo interglaciale prima dell’ultima grande glaciazione che si è abbattuta sulla Terra (MIS2). 10.000 anni fa, invece, il clima si è fatto molto più caldo e umido e il livello del mare è salito rapidamente, fino a distare appena 5 chilometri dalla grotta (7.000 anni fa).

Tutti questi eventi e questi sbalzi termici hanno mutato profondamente la geografia della regione e l’accesso alle risorse naturali, eppure la vita degli aborigeni nel rifugio roccioso è continuata come se nulla fosse.

Questo ha affascinato e non poco archeologi e scienziati che si sono interessati ad un materiale apparentemente povero, ma impagabile veicolo di informazioni sullo stile di vita di migliaia di anni fa: il carbone dei falò accesi dagli aborigeni.

Oltre al carbone esito della combustione del legno, gli archeologi hanno trovato anche avanzi di cibo, frammenti di frutta carbonizzata, noci, semi, radici e tuberi – tutti elementi utili per fare luce sul passato remoto del rifugio.

©Quaternary Science Reviews

Secondo i ricercatori, fin dai primi insediamenti della comunità aborigena le persone di radunavano e si nutrivano di anme – termine che nella lingua locale indica i cibi vegetali, come semi di ninfea, radici e piante di palma.

Al termine dell’ultima glaciazione, con la formazione di zone umide di acqua dolce, l’alimentazione dei Biniji si è trasformata come il loro ambiente, introducendo alghe, frutta fresca, ma anche cibi animali d’acqua dolce come oche e tartarughe.

Gli scienziati ritengono che, se in un primo momento gli aborigeni si siano adattati all’ambiente, nelle fasi successive abbiano iniziato a “plasmarlo” e ad adattarlo alle loro esigenze e ai loro bisogni – anche attraverso ad una pratica detta “incendio culturale”, sviluppato al fine di ridurre la biomassa umida prima che diventi secca e possa rappresentare un pericolo, favorendo lo sviluppo di incendi boschivi non controllabili.

Insomma, una profonda conoscenza dell’ambiente naturale e una convivenza simbiotica con esso che ha permesso a questi aborigeni di continuare a vivere anche in presenza di ambienti molto mutati.

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Fonte: Quaternary Science Reviews

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