Bangladesh: operai morti nell’incendio di una fabbrica che produceva per le multinazionali

Una notizia che ha l’amaro sapore del déjà vu, della storia che si ripete: dieci giorni fa, alle porte di Dacca, in Bangladesh, un incendio ha causato il collasso di una fabbrica in cui operai locali lavoravano per marchi occidentali. Il bilancio ufficiale parla di 33 vittime e di oltre settanta feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni.

Una notizia che ha l’amaro sapore del déjà vu, della storia che si ripete: dieci giorni fa, alle porte di Dacca, in Bangladesh, un incendio ha causato il collasso di una fabbrica in cui operai locali lavoravano per marchi occidentali. Il bilancio ufficiale parla di 33 vittime e di oltre settanta feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni.

La struttura, gestita dalla Tampaco Foils Ltd e in cui si confezionavano pacchetti per sigarette e per alimenti per conto di multinazionali del calibro di Nestlè e British American Tobacco, è crollata in seguito ad un incendio e ad una violenta esplosione, che pare dovuta allo scoppio di una caldaia. Le autorità locali hanno annunciato una compensazione economica per ciascuna delle vittime e hanno avvitato un’indagine: nelle ore immediatamente successive al disastro sono partite diverse denunce, che coinvolgono anche il proprietario della fabbrica, un ex parlamentare.

La notizia fa tornare di attualità il problema della sicurezza nelle fabbriche del Bangladesh, in cui si producono a basso costo capi di abbigliamento e prodotti per il mercato occidentale. Non è la prima volta, infatti, che il Paese asiatico sale agli onori della cronaca per tragedie che colpiscono i lavoratori, il più delle volte vittime di sfruttamento, costretti come sono ad operare in condizioni igienico-sanitarie a dir poco precarie e nella più totale assenza di tutele.

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Tutti ricorderete il crollo del Rana Plaza, nel 2013, che ha ucciso più di mille operai del settore tessile, provocando il ferimento di altre duemila persone. Una vicenda drammatica, di proporzioni terrificanti, ma che purtroppo non è isolata: negli ultimi anni, incidenti più o meno gravi hanno interessato diversi complessi industriali del Paese, soprattutto nel settore tessile. Ma, al di là di una reazione immediata di indignazione e sconcerto, che si ripete di fronte ad ogni evento luttuso, gli atti concreti a difesa dei lavoratori e in favore del miglioramento delle condizioni di sicurezza nelle fabbriche si sono rivelati, almeno fino ad oggi, fin troppo scarsi.

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Basti pensare che, all’indomani della tragedia del Rana Plaza, sono nate delle iniziative per concedere maggiori tutele agli operai e creare un sistema di controlli e ispezioni he renda le strutture in cui operano più sicure: tra queste, ricordiamo l’Accord on Fire & Building Safety e l’Alliance for Bangladesh Worker Safety. Ma, ad oggi, sono ancora numerosi i brand internazionali che non hanno sottoscritto né l’uno né l’altro, evitando così di assumersi qualsiasi responsabilità rispetto alle condizioni dei lavoratori all’interno delle fabbriche che li riforniscono.

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La conseguenza di tale omissione è che gli operai si ritrovano a non avere alcun tipo di garanzia e che le attività di controllo e prevenzione sono limitate a delle sporadiche ispezioni condotte da emissari governativi o da revisori esterni, che dovrebbero, in teoria, denunciare le falle nella sicurezza ma che, troppo spesso, sembrano chiudere più di un occhio. E sembra che sia proprio questo il caso dell’edificio gestito dalla Tampaco Foils Ltd, teatro della tragedia più recente: Nestlè ha fatto prontamente sapere che era stato ispezionato da un revisore esterno nel 2011 e nel 2012 e che non erano emersi problemi.

Formalmente, dunque, le multinazionali per le quali gli operai producevano packaging non hanno alcuna responsabilità nell’incidente. Viene tuttavia da chiedersi se lavarsi la coscienza demandando la sicurezza dei lavoratori a dei controlli condotti sporadicamente e seguendo criteri non esattamente trasparenti possa considerarsi un comportamento corretto dal punto di vista etico. A noi sembra proprio di no.

Lisa Vagnozzi

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