Anna Frank: abbiamo un nome, certo. Ma ora cosa ci cambia?

Una nuova indagine avrebbe identificato chi potrebbe aver “venduto” Anne Frank e la sua famiglia ai nazisti.

Una nuova indagine avrebbe identificato chi potrebbe aver “venduto” Anne Frank e la sua famiglia ai nazisti. Una storia a tratti surreale, un cold case degno di Hollywood che per molti porta a un’unica conclusione: homo homini lupus

Annelies Marie Frank era appena 15enne quando venne uccisa nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Per tutti lei è e sarà sempre Anna Frank, quella giovane ebrea tedesca che fu in grado di scrivere un diario, il Diario, dal suo nascondiglio. Suo, della sua famiglia e di altri pochi clandestini, al numero 263 di Prinsengracht, ad Amsterdam. Un posto rimasto segreto fino a quando qualcuno non li scovò. Ma chi fu la talpa?

Una nuova (inquietante) indagine porterebbe al nome del principale delatore. Sarebbe stato un ricco notaio ebreo, Arnold van den Bergh, a indirizzare la polizia nella soffitta di Prinsengracht, dove i Frank vissero per due anni in clandestinità.

Questo almeno stando alle rivelazioni del libro, Chi ha tradito Anne Frank, (linkaffiliazione), della canadese Rosemary Sullivan, edito da HarperCollins e uscito in questi giorni in vista dell’anniversario della liberazione di Auschwitz, che mette nero su bianco i risultati dell’indagine che portano a identificare la vera spia.

La storia di Anna

Annelies nacque il 12 giugno del 1929 a Francoforte sul Meno da Otto Heinrich Frank e Edith Frank. La sua famiglia, che comprendeva anche una sorella maggiore, era ebrea ma solo in parte praticante. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, Otto Frank cominciò a temere per il loro futuro, a causa dell’antisemitismo dilagante. Presto, quindi, la madre di Anna si trasferì ad Aquisgrana insieme alle figlie, mentre Otto rimase a Francoforte, per poi trasferirsi ad Amsterdam in seguito a un’offerta di lavoro. Qui organizzò il trasferimento della sua famiglia, che nel frattempo perse la cittadinanza tedesca. Nel ’34 la famiglia si riunì nuovamente nei Paesi Bassi.

Nel 1939 scoppiò la Seconda guerra mondiale e nel ’40 le truppe tedesche invasero anche i Paesi Bassi. La famiglia Frank iniziò a subire tutta una serie di ingiustizie e venne progressivamente privata di ogni diritto, esclusa persino dalla vita pubblica e sociale, mentre la piccola Anna fu costretta a rinunciare a ogni suo sogno. Anna dovette in seguito abbandonare anche la scuola pubblica per frequentare un liceo per sole ebree, venne registrata in un registro anagrafico apposito insieme alla sua famiglia, e fu obbligata a indossare la stella gialla che contrassegnava tutti gli ebrei.

Nel 1942, per il suo tredicesimo compleanno, ricevette in regalo il famoso diario, un piccolo quaderno a quadretti bianco e rosso, dove iniziò a scrivere quotidianamente. Otto Frank nel frattempo decise di nascondere la famiglia nella casa retrostante l’edificio della sua ditta, facendosi aiutare dalla sua segretaria Miep Gies. Nel nascondiglio si aggiunsero poi anche la famiglia van Pels e il dentista Fritz Pfeffer.

Otto sperava che presto sarebbero tornati tutti in libertà ma dovettero rimanere nascosti per due anni, senza uscire né fare rumore, in un clima di evidente tensione. La situazione peggiorò ulteriormente e il 17 luglio seppero della partenza del primo treno per Auschwitz e dell’abolizione della cittadinanza agli ebrei.

Durante la clandestinità, Anna si dedicò alla lettura, continuando a riempire le pagine del suo diario di riflessioni, annotazioni, memorie. Finché il 4 agosto 1944 la Gestapo non entrò nell’alloggio e furono tutti arrestati, trasferiti più volte fino ad arrivare al campo di concentramento di Westerbork, dove le donne vennero separate dagli uomini e costrette a lavorare. Il 2 settembre 1944 Anna, la sua famiglia e la famiglia van Pels  vennero selezionati per il trasferimento ad Auschwitz, che avvenne il giorno dopo.

Leggi anche: Anna Frank: la biografia della bimba resiliente che raccontò gli orrori dell’antisemitismo

Chi tradì la famiglia Frank?

Nel luglio del 1947, una indagine del Pra (Politieke Recherche Afdeling, Dipartimento investigativo politico della polizia) accusò il magazziniere della ditta di Otto Frank, tale Willem van Maaren, ma nell’aprile del 1948 venne assolto dall’accusa. Lì svanì ogni tentativo di risalire agli artefici.

Oggi, le pagine scritte dalla poetessa e biografa canadese Rosemary Sullivan, potrebbe riaccendere i riflettori e consegnare (ai più curiosi) la risposta definitiva alla domanda: chi tradì la famiglia Frank?

Quello della Sullivan è il risultato di un enorme lavoro di squadra (l’autrice si è infatti avvalsa di una equipe di tutto rispetto: Thijs Bayens, cineasta olandese, Pieter van Twisk, storico e giornalista e Vince Pankoke ex agente dell’Fbi), che dal 2016, con decine di ricercatori, archivisti, analisti forensi, storici, criminologi e tecnici informatici, hanno analizzato migliaia di documenti, molti anche inediti, rintracciato e intervistato i discendenti di tutte le persone che conoscevano i Frank e che hanno avuto rapporti anche solo commerciali con la ditta di Otto.

Ebbene, il team è arrivato alla conclusione, eliminate piste non sostenute da prove sufficienti, che tra tutti gli indagati c’era solo il notaio ebreo, Arnold van den Bergh.

Ricco, sposato e con tre figlie, fu membro della commissione del Consiglio ebraico che, su ordine dei nazisti, aveva il compito di selezionare i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione. Riuscì a farsi inserire nella lista del tedesco Hans Georg Calmeyer che, ufficialmente, dichiarò la sua non appartenenza alla razza ebraica. Per questo motivo, anche se il decreto nazista obbligava i notai ebrei olandesi a cedere la loro attività, Arnold van den Bergh svolse il suo lavoro fino al gennaio del 1943, fin quando un collega ariano, destinato a occupare il suo studio, J. W. A. Schepers, non lo denunciò alle SS e gli fece perdere i suoi privilegi.

Ma, dopo aver messo in salvo le figlie grazie ai suoi conoscenti che militavano nella Resistenza, per salvare se stesso e la moglie, offrì alla polizia tedesca un certo numero di indirizzi di ebrei nascosti, compreso il numero 263 di Prinsengracht dove c’erano i Frank.

Homo homini lupus, ovvero gli ebrei venduti ai nazisti da un ebreo

Lo diceva bene Hobbes che a determinare le azioni dell’uomo sono soltanto l’istinto di sopravvivenza e di sopraffazione.

Il caso Arnold van den Bergh non è altro che la dimostrazione di quanto Primo Levi già scriveva:

È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario esso le degrada, le sporca, le assimila a sé.

D’altro canto Rosemary Sullivan nel suo libro vuole rimarcare la pietà verso il colpevole. Nessun giudizio morale, insomma.

Ora abbiamo un nome, certo. Ma quanto è giusto saperlo? O, meglio, cosa ci cambia? Cosa cambia in questo orrore, un orrore ancora più grande?

Seguici su Telegram Instagram | Facebook TikTok Youtube

Leggi anche:

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin
Iscriviti alla newsletter settimanale
Seguici su Facebook