Anatomia di uno stupro: è polemica sulle domande alla accusatrice di Ciro Grillo

Spaccano l’Italia in due le domande rivolte alla ragazza vittima di stupro di gruppo (che definiamo “presunta” dal momento che c’è un processo in corso): una degli avvocati difensori nel processo Ciro Grillo (è lui l’imputato insieme a tre suoi amici genovesi), durante la deposizione fiume in Tribunale si è lasciata trascinare da quelle che sembrano vere e proprie scioccanti insinuazioni. Siamo di fronte a un caso di "vittimizzazione secondaria", anche se molti sui social dicono sia lecito un tale approccio

Tre giorni di udienza, tre lunghissimi giorni in cui sei messa sotto torchio per verificare la veridicità o meno di quanto racconti. Oltre al danno la beffa, dicono in molti, ché già hai dovuto subire il dolore e l’umiliazione e lo strappo lacerante di uno stupro, ora ti chiedono anche come avresti fatto a farti violentare.

Questa è la storia della ragazza italo norvegese che nel luglio del 2019 ha denunciato Ciro Grillo (figlio dell’ex fondatore del Movimento 5 Stelle) e tre suoi amici di stupro di gruppo. E ieri, al termine dell’udienza fiume in cui la ragazza ha deposto per la terza volta consecutiva, sono scattate le polemiche.

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Come mai? Beh, facile a dirlo dal momento che quelle che si è sentita rivolgersi sono state domande alquanto sconcertanti, degnamente comparabili a quelle che si sentì dire Franca Rame nei lontanissimi anni ’70.

Allora alla Rame fu chiesto: “Lei ha goduto”.

Tenetevi forte perché, anno 2023, con l’interrogatorio della difesa di Grillo siamo sullo stesso piano:

“Ma se aveva le gambe piegate, come hanno fatto a toglierle i pantaloni?”

“Ci può spiegare come le sono stati tolti gli slip?”

“Come mai non ha reagito con un morso durante il rapporto orale?”

“Lei ha sollevato il bacino?”

“Perché non ha urlato?”

E via discorrendo.

Siamo fermi a mezzo secolo fa quando il processo per stupro accusava chi subiva le violenze, dicono invece gli avvocati della presunta vittima della violenza sessuale.

Ma presunta o no, non è questo il punto. Se è vero come è vero che si è innocenti fino a prova contraria (ed è questo il filone seguito da molti per cui quelle domande avevano ragione d’essere), è anche vero che quello cui si è assistito in aula è un “interrogatorio da Medioevo”, chiaro emblema di una vittimizzazione secondaria. E, in un modo o nell’altro, lo confermano anche le parole dei difensori:

I processi si ricostruiscono i fatti. Il fatto di cui discutiamo è un fatto di violenza sessuale e non c’è niente di intimo in una violenza sessuale. O è una cosa intima o è una violenza sessuale. E il processo si fa per capire se è stata una cosa intima o violenza sessuale.

Ma cos’è la vittimizzazione secondaria?

Nel 2006, la Commissione europea definì la vittimizzazione secondaria come quella “che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima“.

Si è dunque in presenza di “vittimizzazione secondaria” quando una persona che ha subito una violenza è costretta a rivivere il trauma oppure a subire altre violenze da parte di altri soggetti altri rispetto all’autore della violenza primaria. Ciò accade soprattutto quando la vittima sceglie di denunciare.

Così, per esempio, è vittimizzazione secondaria dire che la vittima di una violenza “se l’è andata a cercare” (ricordate la storia del lupo e di Gianbruno?) o che ha denunciato tardi (è il caso, uno tra i tanti, proprio della accusatrice di Ciro Grillo, additata anche all’inizio di questa storia di aver “pensato tardi a sporgere denuncia) o che, magari, era sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o di alcol. Così come è vittimizzazione secondaria, ancora, diffondere o pubblicare immagini e video della violenza subita dalla vittima.

Va da sé, quindi, che la vittimizzazione secondaria è quel gioco al massacro per cui l’attenzione passa dall’aggressore alla vittima: la persona che ha subito la violenza viene ritenuta in qualche modo responsabile, come se il sopruso fosse una diretta conseguenza di un suo comportamento e non più della sola condotta del violento.

Non è l’unico caso

Ovvio, quello del caso Grillo è solo l’ultimo esempio di una lunga serie.

Nel 2017, a Torino, la denuncia di stupro di una donna non è stata ritenuta attendibile perché la vittima “aveva detto basta, ma non aveva urlato”.

Nel 2022, sempre a Torino, la Corte di Appello ha assolto un uomo perché ha ritenuto che la porta socchiusa lasciata dalla ragazza fosse “un invito a osare“. Così come la Corte di Appello di Ancona aveva assolto due uomini per la violenza sessuale nei confronti di una ragazza perché era troppo “mascolina” e “non abbastanza attraente” perché la ricostruzione dello stupro fosse credibile. Questa decisione fu però fortunatamente riformata in Cassazione.

In molti altri casi, poi, lo stupratore è stato assolto perché la donna non aveva “dichiarato” il suo dissenso abbastanza velocemente…

Che ci piaccia o no, che siano domande medievali o no, intanto sui social decine di persone hanno commentato quanto accaduto nel processo a porte chiuse e sono molti coloro che credono che siano quelle domande legittime. Quel che pensiamo noi è che, invece, questo tipo di frasi sposta l’attenzione sulla vittima: la persona che ha subito la violenza è ritenuta in qualche modo responsabile, come se l’abuso fosse conseguenza di un suo comportamento e basta.

Al netto dell’esito di questo processo in particolare, pensiamo solo a una cosa: alla luce di queste allusioni, quante donne non denunciano perché hanno paura di non essere credute e di subire poi, piuttosto, un autentico linciaggio?

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