Ambra Angiolini e il monologo sulla parità salariale di genere (e sulle vocali) che divide invece di unire

Sul palco del concerto del Primo Maggio, Ambra Angiolini si è schierata a favore della parità di genere lavorativa tra uomini e donne, ma ha citato anche il linguaggio inclusivo, in un discorso che a tanti è sembrato contraddittorio e controproducente

Che il concerto del Primo Maggio faccia parlare di sé più per i messaggi che artisti e ospiti lanciano piuttosto che per le canzoni vere e proprie è cosa risaputa. E anche quest’anno, il giorno dopo l’evento, la regola è confermata.

Questa volta a far discutere è l’intervento di Ambra Angiolini, conduttrice per la sesta volta della maratona in diretta da piazza San Giovanni a Roma. A metà pomeriggio, l’attrice divenuta famosa proprio come volto Rai, sotto la pioggia battente ha parlato della condizione lavorativa delle donne.

Un argomento di cui è essenziale parlare ogni giorno e reso ancor più potente dal fatto che l’hashtag del concerto, finito in tendenza su Twitter per l’intero evento, fosse emblematicamente proprio #ildirittochemimanca. Tuttavia il modo in cui la Angiolini ha scelto di presentare il tema non è piaciuto a tanti.

Uno “scambio” di diritti: le parole che hanno fatto discutere

Ma vediamo cos’ha detto. Ha sostenuto:

Avvocata, ingegnera, architetta. Tutte queste vocali in fondo alle parole sono, saranno armi di distrazione di massa? Ci fanno perdere di vista i fatti e i fatti sono che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto di meno di un uomo che copre la stessa posizione. Non lo diceva già la Costituzione nel 1949 che la donna doveva avere gli stessi diritti dell’uomo nell’articolo 36?

Uno sfogo più che legittimo e veritiero, se non fosse per le parole che ha usato prima e per quelle che ha speso poco dopo, riferendosi alle famose vocali tanto dibattute per enunciare una professione al femminile. Ha infatti aggiunto:

Che ne facciamo delle parole? Voglio proporre uno scambio: riprendetevi le vocali in fondo alle parole, ma ridateci il 20% di retribuzione. Pagate e mettete le donne in condizione di lavorare. Uguale significa essere uguale e finisce con la ‘e’.

Perché mettere i due temi in contrapposizione, invece che sullo stesso piano?

Insomma, per Ambra è tutta questione di dare qualcosa in cambio pur di ottenere la tanto agognata parità di genere sul lavoro e nella vita. Proprio questo però ha fatto indignare molti, pur parteggiando per il suo discorso di fondo: perché mettere questi due temi in contrapposizione?

Non serve a nulla tutto questo perché la parità di genere passa e parte anche da lì, dal vedersi riconosciuti titoli e professioni al femminile. Proprio una volta che si normalizzeranno questi termini e che nessuno storcerà più il naso nel sentire “avvocata, ingegnera e architetta”, allora forse donne e uomini avranno la stessa considerazione.

Le parole contano e anche le vocali perché possono ferire a volte anche tanto quanto uno stipendio più basso. Potrà essere pura teoria, ma dopo la teoria viene la pratica e i diritti non vanno certo barattati. La battaglia per arrivare ad un linguaggio inclusivo deve andare pari passo e non contro quella per ottenere una parità di retribuzione.

Una battaglia per uscire dall’invisibilità in cui per anni le donne sono rimaste, con termini declinati sempre e solo al maschile semplicemente per un fatto: di donne, a ricoprire quel ruolo, non ce n’era nemmeno una perché era vietato per il genere femminile avere certi incarichi.

Sfumature, diranno tanti, semplici declinazioni, certo, che però incarnano decenni di lotte per far sì che prima o poi di ciò si potesse dibattere. E quando si smetterà di dibattere, sia di linguaggi inclusivi che di parità di retribuzione, allora si sarà arrivati finalmente alla parità di genere, quella vera. Conquistata e non barattata.

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