Aborto, apre a Torino la prima “stanza dell’ascolto”, ma le donne hanno davvero bisogno di questo?

La questione è assai delicata: uno sportello per le donne che avrebbero intenzione di abortire, aperto peraltro in un ospedale pubblico e finanziato con fondi pubblici, ma gestito da un'associazione antiabortista. Che senso ha tutto ciò?

Con una convenzione firmata con un’associazione antiabortista di ispirazione cattolica è stata aperta all’Ospedale Sant’Anna di Torino la prima “stanza dedicata all’accoglienza e all’ascolto” delle donne che vogliano interrompere una gravidanza. La convenzione (contro cui ancora pende un ricorso al Tar, presentato da Cgil e da SeNonOraQuando?) è stata firmata dall’Azienda Città della Salute e della Scienza di Torino, uno dei poli sanitari più grandi in Italia, e dalla federazione regionale del celeberrimo Movimento per la Vita (e fortemente valuta dell’assessore alle Politiche sociali della Giunta piemontese).

L’ospedale torinese è il primo in Italia per numero di parti (nel 2022 se ne sono registrati 6414) e il primo in Piemonte per numero di interruzioni volontarie di gravidanza: nel 2021 ne sono state effettuate circa 2500, il 90% di quelle effettuate a Torino e il 50% di quelle effettuate in tutta la Regione. Non è un caso, forse, che la “stanza per l’ascolto” sia stata aperta proprio qui, sovvenzionata poi dal cosiddetto “Fondo vita nascente”, approvato con una delibera dalla Regione Piemonte e finanziato negli anni scorsi con oltre 400mila euro e poi con quasi un milione di euro per il 2024.

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Ma cos’è nello specifico? Una stanza, appunto, dove un gruppo di volontari e volontarie del Movimento per la vita (quindi leggi: gruppo antiabortista di ispirazione cattolica), riceverà su appuntamento le donne per tentare di far risolvere le cause che potrebbero indurle all’aborto.

Un delirio oscurantista contro le donne, la loro dignità, la loro libertà, il loro diritto all’autodeterminazione, dice subito Chiara Appendino, ex sindaca di Torino.

E di fatto cos’e non una traiettoria a senso unico verso la colpevolizzazione della donna?

Senza nascondersi dietro a un dito buttando lì la giustificazione secondo cui l’iniziativa serve a porre rimedio al “preoccupante” calo delle nascite, come ci ha tenuto a dire l’assessore Marrone che ha appoggiato il progetto, la domanda che sorge spontanea è: perché una tale intromissione nella decisione di una donna, da parte oltretutto di attivisti che tutto vogliono fuorché ascoltare le sue ragioni e “supportarla” di conseguenza in un modo o nell’altro? È proprio quello di cui noi donne abbiamo bisogno?

Ogni volta che una donna abortisce [è] perché si è sentita abbandonata di fronte alla sfida della maternità, corre ancora a precisare Marrone.

Ma di che sfida parla? La nostra, di sfida, è soltanto avere e mantenere la libera scelta delle nostre azioni, è quella di tenere in vita una legge la 194 – che ci consente di decidere di interrompere la gravidanza nei primi 90 giorni, senza interferenze e condizionamenti e che neppure il padre (o presunto tale) del concepito possa intromettersi e che la sua presenza nel consultorio o nella struttura sanitaria è sempre subordinata al consenso della donna.

Questo per dire che, nonostante la stessa legge preveda all’art. 2 che la donna sia informata sui diritti a lei spettanti e che i servizi sociali, sanitari e assistenziali possano offrire un supporto se da lei richiesto, non è pensabile che una cosa così intima e così delicata venga affidata ad associazioni antiabortiste che condannano senza mezze misure – e non lo nascondono – l’interruzione di gravidanza. D’altronde, proprio perché esistono quei servizi pubblici, delegare a privati un simile compito vuol dire calpestare ancora una volta i diritti sessuali e riproduttivi di una donna.

Le donne avevano bisogno di una “stanza dell’ascolto”? No, o meglio: non di quella. Non di quella in cui ti fanno sentire colpevole, non di quella in cui viene negato ogni principio di autodeterminazione, nell’eterno braccio di ferro con un modello di supremazia tossica ancora imperante, in cui si prendono misure squisitamente strumentali che al benessere della donna non guardano nemmeno col binocolo.

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