Vi racconto cosa significa davvero essere genitore di un neonato prematuro, fra paure, attese interminabili e speranze

Li chiamano "piccoli guerrieri" e, in effetti, lo sono davvero. Circondati da fili, tubi e sondini, lottano minuto per minuto, chiusi in un'incubatrice, per restare attaccati alla vita. Tutto questo mentre le loro mamme e papà sperimentano l'angoscia di un'attesa interminabile e sognano di stringerli finalmente a casa e abbracciarli senza paure. Cosa si prova ad essere genitori di un bambino nato pre-termine? In occasione del World Prematurity Day - che si celebra il 17 novembre - lo abbiamo chiesto direttamente a una mamma e a una coppia che hanno voluto condividere con noi le loro esperienze, ricordandoci quanto sia importante essere supportati e non vergognarsi di chiedere aiuto in questa fase così delicata

Hanno piedini e manine minuscole, polmoni delicati, e il peso di un pacco di pasta, ma una tenacia e un attaccamento alla vita disarmanti. Niente abbracci veri e coccole di mamma e papà, niente lunghe poppate al seno, nessun primo bagnetto a casa. Quelle culle che i genitori hanno preparato, accanto al loro lettone, restano vuote a volte per settimane, in altre casi per mesi.

I neonati prematuri si ritrovano a vivere in quella che è in una sorta di limbo, nella TIN, che ai non addetti ai lavori potrebbe sembrare una parola allegra, ma è l’acronimo di “terapia intensiva neonatale”, un luogo fatto di fili, tubicini e monitori.

Mentre i piccoli restano nelle incubatrici in attesa di vivere le avventure che li aspettano al di fuori di quella bolla, le loro mamme e il loro papà vivono una sorta di vita parallela. Il momento dell’arrivo del proprio piccolo se l’erano immaginato completamente diverso, ma hanno quasi l’impressione di essere ancora genitori a metà, costretti a stare lontani (tranne per pochi momenti) dai figli che avevano tanto sognato e desiderato. Anche loro, come quei neonati che lottano aggrappati a fili e tubi, sono tutto un groviglio di paure, ansie, rabbia e tristezza, ma anche speranze.

Spiegare a parole cosa si prova in questa fase non è facile. Per questo ci siamo rivolti ad alcuni genitori, che hanno avuto dei meravigliosi “bambini piuma” qualche mese fa. Queste sono le loro esperienze.

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La storia di Dominella, mamma di una bimba nata a 33 settimane

Per raccontare questa storia voglio partire da una frase: “Goditelo, sarà il periodo più bello della tua vita”. Perché si sa, la gravidanza non è una malattia, il figlio l’hai voluto tu, mia nonna ha partorito 16 figli. E guai a sfatare certi tabù. Ma ricordo esattamente il momento in cui ho capito che le cose non sarebbero andate così.

Embrione senza battito. A sette settimane, mentre già tutto fremeva per i preparativi natalizi, arriva la doccia gelata. Embrione senza battito recita il referto del Pronto soccorso del Gom di Reggio Calabria e “Signora mi raccomando si stanchi molto così facilitiamo l’espulsione veloce e senza intervenire”. Proprio detto così. Ma il caso vuole che le cose facili alla signora, cioè io, non sono mai piaciute. Si fissa l’appuntamento. “Ma possiamo fare un’ecografia prima di firmare per procedere?”. “Signora, intanto firmi, adesso arriva la dottoressa”. Detto ancora una volta così, come se stessi firmando un bigliettino di auguri di Natale. E vi assicuro che in certe cose tra il dire e il fare, c’è veramente il mare.

Qui c’è il battito. Se non fossimo stati in un ospedale, avrei sicuramente pensato di essere stata vittima di uno scherzo di cattivo gusto. Ma poi, le cose sono andate esattamente così: l’embrione era vivo, semplicemente non avevano saputo leggere l’ecografia. E io stavo per abortire.

Ma il periodo più bello della mia vita mi ha riservato un’altra sorpresa. Al quarto mese una diagnosi di colestasi gravidica che mi ha trasformato in una larva umana tra ematomi, prurito, pustole e analisi tre volte la settimana fino a costringermi al ricovero per quasi un mese al Fatebenefratelli di Roma.

33 settimane. Sono arrivati a farmi i prelievi nella caviglia perché le mie braccia e le mie mani erano distrutte. In 33 settimane non mi sono mai lamentata. Ma ci tengo a dire che io aspiro sempre alla normalità, non ad essere una supereroina. Da ipocondriaca ho messo da parte me stessa e ho iniziato a pensare a me come una piccola culla termica che doveva custodire e proteggere un qualcosa di meraviglioso che stava lottando con tutte le sue forze per sopravvivere. La stessa culletta termica che poi ha tenuto in caldo la mia piccolina, nata all’improvviso in un giorno piovoso di giugno perché “Signora sta meglio fuori che dentro, qui state rischiando entrambe”.
E quello è stato il momento in cui la crisi isterica tenuta in fondo al cuore per 33 settimane è balzata fuori in maniera irruenta.

1490 grammi. Avrebbe dovuto essere Leone come il papà, ma forse le piaceva più Gemelli. Così E. è arrivata con un cesareo d’urgenza. Un pulcino con tanti capelli rossi. Nessun contatto al seno della mamma perché la priorità è controllare i polmoni e metterla subito in culla termica. Una cosa a cui penso spesso e che vivo come un lutto interiore. Sarebbe stato bello vivere quel momento, ne sono certa. E. è rimasta in Tin per quasi un mese. Un mese in cui io e mio marito siamo tornati a casa da soli, in cui abbiamo fatto mille sacrifici avanti indietro dall’ospedale, in cui ci siamo sentiti sgomenti e ci siamo chiesti: ma perché proprio a noi?

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La Tin. Il mondo della Tin è un mondo sospeso. Le culle termiche sono una accanto all’altra. In ognuna c’è il nome del neonato/a, il peso e la data di nascita. Ci sono monitor dappertutto e ogni suono di una macchina è per un genitore un tuffo al cuore. C’è tua figlia, ma ti affezioni anche agli amici di culla. Le dai il buongiorno la mattina, le dai la buona notte la sera. Loro vivono in uno stato embrionale, in cui non hanno capito se sono nati o no. Non somigliano a neonati, è come se fossero ancora lì ad aspettare di conoscere il mondo. Senti il peso della responsabilità, ti chiedi se il problema sei stata proprio tu. Vacilli, cadi, ti rialzi. In Tin non c’è tempo per i pensieri negativi, perché davanti a te ci sono solo piccoli guerrieri. Piccoli guerrieri coccolati da tutti. Da mamma e papà, dai nonni, gli zii, gli amici lontani. Dal meraviglioso staff di medici, ostetrici, in particolare Emilio, ginecologi, infermieri, psicologici del Fatebenefratelli che amano e accudiscono i bambini e anche i genitori. Dalle mie compagne di stanza e di sventura, soprattutto Amanda e Claudia (senza dimenticare le nostre scorribande notturne a caccia di bomboloni da mangiare in terrazza con vista Tevere). Dalle volontarie di Cuore di maglia che sferruzzano copertine, scarpette e cappellini di lana che li riscaldano nelle notti da soli. 

Per me il Fatebenefratelli è stato più che un ospedale: una casa in cui sono stata supportata e aiutata. Perché vi ho voluto raccontare questa storia. Io e mio marito siamo persone normali e come noi tantissimi genitori nelle nostre stesse condizioni. Non siamo santi, non siamo eroi, non vogliamo che ci si dica bravi. L’ho voluta raccontare per dire grazie a tutte quelle persone che in qualche modo ci hanno fatto sentire la loro vicinanza, ai miei splendidi colleghi di lavoro che mi hanno tutelata quando per me, la gravidanza era diventata una malattia. Ma l’ho voluta raccontare anche per condividere un’esperienza e dire che ce la si può fare e che non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto. E. cresce bene, anche se mi ha fatto un ennesimo scherzetto: è la copia identica di papà. Mamma ancora non pervenuta. Buona giornata della prematurità a tutti i nostri piccoli guerrieri.

La storia di Martina e Claludio, genitori di due gemelli nati a 30 settimane

Ritrovarsi catapultati in un luogo che mai avremmo voluto conoscere, con macchinari che non avremmo mai voluto vedere, è stato davvero uno choc. Il 12 giugno è iniziato il percorso dei nostri piccoli, Leonardo e Cesare, nati a 30 settimane e di appena 1090 e 1425 g, poco meno di una bottiglia d’acqua che teniamo in mano al supermercato quando facciamo la spesa.

Da quel giorno ogni istante passato dentro la terapia intensiva neonatale dell’ospedale Burlo Garofolo di Trieste era allo stesso tempo un dono ed un momento vissuto con la preoccupazione di due giovani genitori che sapevano di non poter stringere a sé il frutto del loro amore tra le proprie mura domestiche. Fin da subito, però, ci siamo sentiti accompagnati in questo percorso, accolti come se il personale sanitario ci conoscesse da sempre; anche solo il chiamarci non per nome, non per cognome, ma con “mamma” e “papà”, ci aiutava a superare ogni minuto che ci sembrava infinito con i nostri bambini in una incubatrice che, riempita di cavi, accessi venosi e supporti per la respirazione, teneva al caldo e letteralmente in vita quelle piccole creature, ignare che il loro percorso “naturale” sarebbe stato tutt’altro che questo.

@greenMe

Tanti sono stati i momenti intensi e indimenticabili come quando, grazie alla Kangaroo therapy, abbiamo tenuto i bimbi con il solo pannolino e delle coperte al nostro petto nudo; la canguro-terapia li rendeva immediatamente più tranquilli, migliorava i loro parametri vitali e ha creato un legame che non si spezzerà mai più. Ripensare a questa esperienza ci mette tutt’ora i brividi, ma ci ha resi sicuramente più forti ed uniti.

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Ora non ci resta che raccontare a tutti che questo percorso, fatto di ostacoli, paure, tempo che sembra non passare mai, si può fare e soprattutto superare e che aiutare chi lavora ogni giorno in questo ambiente è il minimo che si possa fare; da quest’anno, infatti, per la giornata mondiale della prematurità, partecipiamo attivamente dando il nostro contributo alla causa, per la ricerca, per nuovi dispositivi medici e per aiutare chi, come noi, ha vissuto un’esperienza simile. Noi lo abbiamo fatto sostenendo la Fondazione Burlo Garofolo, che promuove per l’appunto tali progetti. Oggi i nostri bimbi hanno poco più di 5 mesi e sono arrivati a circa 6 kg di peso, ridono, interagiscono e ci tengono sempre allegri.

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