Grazia Deledda nacque a Nuoro nel settembre del 1871 e morì a Roma nel ‘36. Nel 1926 conquistò un Nobel per la letteratura e da allora è ricordata anche come la seconda donna, dopo la svedese Selma Lagerlöf, a ricevere questo riconoscimento, e la prima italiana. Fu anche la prima donna italiana candidata al Parlamento nel 1909 e a lei dobbiamo il meraviglioso concetto di “sororità”
Nel ‘26 vinse il Premio Nobel per la Letteratura con questa motivazione: “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”.
Eppure prima di allora (ma nemmeno dopo), lei, Grazia Deledda, non aveva avuto mica vita facile. Subissata dai pregiudizi di una fine secolo, l’800, e dei primi anni del ‘900, ha dovuto sempre lottare contro parecchie incomprensioni. E così anche dopo la morte quando, per lungo tempo, una buona fetta della critica letteraria, sostanzialmente dominata dagli uomini, non ha fatto a meno di confinarla in un cono d’ombra.
Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei – dirà no 10927 alla cerimonia di conferimento del Nobel. Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta. Senza vanità anche a me è capitato così.
Prima donna italiana candidata al Parlamento nel 1909, la carriera letteraria della Deledda cominciò ufficialmente nel 1888, nel momento cui inviò a Roma alcuni racconti come “Sangue sardo” e “Remigia Helder”, pubblicati poi dall’editore Edoardo Perino sulla rivista L’ultima moda. La consacrazione di scrittrice arriva qualche anno più tardi, nel 1903, con la pubblicazione di “Elias Portolu”, avviando una fortunata serie di romanzi e opere teatrali. Tra i suoi principali libri ci sono anche Canne al vento (1913), La madre (1920), La via del Male (1896), Cegranere (1904).
Deledda, tra tragedie familiari e storie della sua terra
Nacque a Nuoro alla fine dell’800 e vi visse 29 anni. Una serie di tragedie segnarono la sua famiglia, ma nel 1886, a soli 15 anni, riuscì a pubblicare la sua prima novella su un giornale nuorese. Due anni dopo cominciò a collaborare anche con altri giornali e riviste, prima sarde e poi romane.
Proprio nella sua terra natia immaginò le sue più belle storie rimaste meravigliose fino ai giorni nostri, racconti di gente semplice e dall’animo complicato, Marianna Sirca, Annesa, Noemi, che “andavano – scriveva – a messa composte, rigide con i visi quadrati, pallidi, nella cornice dei capelli lucenti con il raso nero”.
E proprio a Nuoro, però, la gente la giudicò, perché “colpevole” di aver raffigurato la realtà.
Di sé scriveva con chiarezza e una fermezza insoliti ai suoi tempi:
Io non sogno la gloria per un sentimento di vanità e di egoismo, ma perché amo intensamente il mio paese, e sogno di poter un giorno irradiare con un mite raggio le fosche ombre dei nostri boschi, di poter un giorno narrare, intesa, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza.
Avrò tra poco vent’anni, a trenta voglio avere raggiunto il mio sogno radioso quale è quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda.
Sono piccina piccina, sa, sono piccola anche in confronto delle donne sarde che sono piccolissime, ma sono ardita e coraggiosa come un gigante e non temo le battaglie intellettuali.
Nell’ottobre del 1899 Grazia Deledda si trasferì a Roma e l’anno dopo sposò Palmiro Madesani, un funzionario del Ministero delle Finanze conosciuto a Cagliari due mesi prima.
Nel frattempo, parte della critica cominciò ad apprezzare il verismo della sua narrativa (anche se la sua attenzione è tutta incentrata sulla interiorità dei suoi personaggi e questo la avvicenerebbe più al decadentismo), i toni cupi, l’ansia di liberazione delle sue opere e le storie di passioni primitive, tanto che riuscì, la sua opera, a oltrepassare i confini italiani. Il 10 dicembre 1926 arrivò la consacrazione più alta: il conferimento del premio Nobel per la letteratura. L’unica donna italiana sinora.
Un tumore al seno la portò via nel 1936.
Il femminismo e la sororità
O quella che oggi chiameremmo “sorellanza”, ovvero ciò che molti studiosi hanno delineato come il femminismo visto e rappresentato dalla Deledda. Non un femminismo generalista, ma un femminismo più intimo, privato, individuale, che però era in grado di diventare collettivo nel momento in cui si istaurava una rapporto da donna a donna.
Nel 1908 partecipò a Roma al Primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane per una “partecipazione femminile alla vita sociale” e per diritti politici delle donne. Fu questo il primo congresso del Movimento Femminista Italiano, inaugurato proprio dalla Deledda e da Maria Montessori. Grazia però, dopo tre anni, si distaccò un po’ dal movimento generalista per scegliere una forma di un femminismo privato, individuale, appunto “sororale”.
In definitiva, la Deledda si sentiva decisamente lontana dalle lotte di emancipazione e dal femminismo tradizionalmente inteso. Secondo il suo femminismo, piuttosto, con ogni donna cerca di creare un rapporto perfetto, un legame per definizione privo di ogni forma di antagonismo e agonismo competitivo.
Alle donne devo solo ostilità, avversità e ogni genere di biasimo. La sola gloria che la donna pare riconoscere è il dominio, ma il controllo del regno domestico, l’attesa dell’uomo sacrificato e lontano, strappato alle cure muliebri dal massacrante lavoro negli ovili o al servizio della patria in guerra, diceva.
Come spiega Ilaria Maggianu Scano su La voce di New York, si parla di “sororità” con tutte le donne che hanno fatto parte della sua vita: con le tre sorelle Vincenza, Peppina e Nicolina, con la nipote Mirella, e, per affinità e interessi, con Sibilla Aleramo, Matilde Serao (molto sostenuta dalla Deledda durante una la crisi matrimoniale con Edoardo Scalfoglio), con Eleonora Duse e, non ultima, con Maria Montessori.
L’autrice sarda ha saputo così percorrere il proprio tempo con uno spirito decisamente controcorrente, padrona – sin dalle origini – del suo stesso destino.
Cosa dobbiamo a lei? Un insegnamento oltre ogni misura nell’avere sempre fiducia nelle proprie capacità e a rimuovere tutti gli ostacoli a ciò che realmente vogliamo raggiungere. Le barriere, quelle di ordine sociale e culturale soprattutto, quelle che in altre forme e sotto altri aspetti ancora oggi abbiamo.
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