Di genitorialità, empatia e rivoluzioni: ecco perché dovremmo tutti leggere “Dare la vita”, il libro postumo di Michela Murgia

"Le persone, prima di tutto. Il resto sono chiacchiere", scriveva Michela Murgia in uno dei suoi ultimi post. D'altronde si sa, la sua famiglia queer fondata sulla libertà era ed è la prova provata che i legami più forti sono quelli che ci si sceglie, non quelli in cui si nasce. Murgia torna con un libro, Dare la vita, che esce domani 9 gennaio

“Dare la vita” non è senso esclusivo dell’atto di chi diventa madre. “Dare la vita” non è proprietà intellettuale di donna che genera. Di madre. E neppure di padre. Non è concetto riservato a pochi e nemmeno il più comune dei luoghi comuni.

Se è vero che i nostri nonni ripetevano (quasi) sempre “i figli sono di chi li cresce”, non si è capito l’esatto momento in cui il più o meno medesimo pensiero, ampliato a suon di amore e di intrecci di empatia, quando l’ha espresso Michela Murgia ha fatto scandalizzare l’Italia benpensante.

Eppure lei, Michela Murgia, morta fisicamente in agosto scorso, ma mai nei suoi ideali e nei suoi scritti, lo ha detto e sostenuto fino all’ultimo:

[La queer family è] Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla. Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda. (intervista con Aldo Cazzullo, Corriere della sera, 6 maggio 2023).

Quell’idea di queer, insomma, di quella “formazione” familiare che la società non aveva previsto, lontana dalla concezione tradizionale di famiglia: un padre, una madre, dei figli. Ma che cos’è una famiglia queer?

Per dirla con Murgia, è una famiglia ibrida, fondata sullo ius voluntatis, sul diritto della volontà, una forma non tradizionale di organizzazione dei rapporti tra persone non basata sui legami di sangue o coniugali, ma su un patto di responsabilità e di cura reciproca.

Et voilà: è la famiglia che scegliamo, dunque. È la famiglia “d’anima”, per dirla ancora con lei.

Dare la vita, il libro postumo

Proprio su questi temi, sui temi di maternità e della genitorialità, verte il libro postumo di Michela Murgia, l’opera alla quale si è dedicata negli ultimi giorni prima di morire.

Uscirà domani 9 gennaio Dare la vita, edito da Rizzoli e a curare la raccolta di riflessioni della Murgia è il “figlio d’anima” Alessandro Giammei, ricercatore di letteratura italiana all’università di Yale.

Un libro dedicato alla genitorialità nel senso più ampio e inclusivo possibile, come insegnava la sua stessa famiglia queer, nata nella convinzione ostinata che i legami più forti siano quelli che ci si sceglie, non quelli in cui si nasce.

Fino all’ultimo ha scritto queste pagine che formano in qualche modo un altro pezzo della sua eredità spirituale sui temi della famiglia, scelta e biologica, della maternità e della gravidanza.

La mia anima non ha mai desiderato generare né gente né libri mansueti, compiacenti, accondiscendenti. Fate casino, ha esortato sempre Michela Murgia.

Qui uno stralcio:

Nel 2017, in Messico, accadde una cosa che a ripensarci oggi non era tanto banale. Venni invitata a una rassegna editoriale internazionale e — come spesso accade in questi eventi — non ero sola, ma intruppata con altre scrittrici e scrittori italofoni in una specie di gita di classe promossa dall’Associazione italiana editori e sostenuta economicamente dal ministero degli Esteri, a cui fa capo l’organizzazione culturale fuori confine.

La sera prima della partenza, uno dei miei figli d’anima si sentì male ed ebbe bisogno di me. Cancellai subito il viaggio e dissi: spiacente, ma la mia presenza è richiesta qui, ubi maior, capirete. L’organizzazione fu all’inizio comprensiva, ma nei giorni successivi mi giunse dagli uffici di segreteria la richiesta di rifondere allo Stato la cifra del biglietto, se non volevo rispondere di danno all’erario. Non era una richiesta irragionevole, ai loro occhi: per evitare il rimborso sarebbe bastato mostrare un certificato di famiglia che attestasse la parentela e uno relativo alle condizioni di salute del ragazzo. Io però non avevo niente di simile perché, agli occhi dello Stato, non ero io la madre del figlio di cui stavo prendendomi cura. Non so quanto un biglietto intercontinentale sia una spesa notevole per voi. Per me lo era. Lo ripagai, ma cominciai a farmi domande che non mi ero mai posta prima.

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