Nel giorno dell’anniversario di uno degli incidenti nucleari peggiori della storia, oltre alle iniziative organizzate in Italia dalle associazioni e dal Comitato contro il nucleare, tre libri, diversissimi tra loro, usciti in questi giorni tentano di fare il punto della situazione con parole e immagini su Chernobyl e in generale sull’energia atomica.
All’una e 26 minuti della notta del 26 aprile di 25 anni fa il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina esplose lanciando nell’atmosfera venti milioni di Curie di materiali radioattivi, molti dei quali giunsero fino a noi. È passato un quarto di secolo da allora e nonostante le dovute differenze oggi stiamo rivivendo quel dramma che ci avevano giurato non avremmo più vissuto.
Nel giorno dell’anniversario di uno degli incidenti nucleari peggiori della storia, oltre alle iniziative organizzate in Italia dalle associazioni e dal Comitato contro il nucleare, tre libri, diversissimi tra loro, usciti in questi giorni tentano di fare il punto della situazione con parole e immagini su Chernobyl e in generale sull’energia atomica.
Sta sconvolgendo la Francia e oggi arriva anche in Italia il romanzo “La centrale” di Elisabeth Filhol che racconta con dovizie di particolari la quotidianeità di uno dei tanti operai a contatto delle centrali nucleari francesi, il suo rapporto con un lavoro ad altissimo rischio e le ragioni che lo hanno condotto a scegliere una professione così.
Una vita senza fissa dimora, da una centrale all’altra, fino a quando la contaminazione non arriva al livello di guardia, la carne si avvelena ed è necessario sospendere, anche se solo per un po’. “Carne da
reattore”: perché questo è Yann, il narratore, e questo sono i suoi compagni, una confraternita di lavoratori nomadi, precari, cresciuti all’ombra della catastrofe di Chernobyl e uniti dalla consapevolezza del pericolo, dalla minaccia dell’irradiazione, della sovraesposizione. Una minaccia che grava su tutti loro. Su tutti noi.
Al centro di tutto lui, l’impianto nucleare, la centrale “fredda, enorme, impenetrabile e indistruttibile” che divora lentamente i suoi operai: “ un corpo di cemento grigio nel cui nucleo si nasconde un’energia colossale, contenuta in un confinamento che chiede solo di essere infranto, per mostrarne il valore.
Informazioni precise e documentate si intrecciano ad una trama narrativa appassionante per dar vita ad un romanzo estremamente originale e convincente.
Ma se è la componente reale, documentata e storica quella tra le due che preferite, il libro di Massimiliano Squillace CHERNOBYL. SCATTI DALL’INFERNO rappresenta un vero e proprio viaggio fatto di foto e testi dallo stile rapido e asciutto su ciò che è rimasto di Cernobyl, e dei nostri peggiori incubi, cinque lustri dopo. Foto e testi per “riflettere sui pericoli dell’energia nucleare e sulle conseguenze spaventose che un incidente nucleare può determinare ai danni dell’intera umanità, come Fukushima ci ha drammaticamente mostrato nelle ultime settimane.
Ma altri scatti sono destinati a ricordare crudelmente l’incidente di Chernobyl. Quelli di Pino Bertelli e del suo reportage fotografico sui bambini nati e vissuti nel posto colpito dal disastro nucleare e pubblicato nel volume “Cernobyl – Ritratti dall’infanzia contaminata” realizzato in collaborazione con il WWF che ha dato il proprio patrocinio e contribuito alla redazione dei testi.
“Le fotografie dei bambini colpiti dalle radiazioni sono state scattate in alcuni istituti della Bielorussia – spiega l’autore -. Altre, invece, ritraggono i bambini incontrati intorno alla zona rossa, 30 chilometri dalla centrale, mai completamente abbandonata”.
Tre libri diversissimi tra loro ma in grado ciascuno dei tre di trasmettere il dramma e i rischi del nucleare.
Di seguito riportiamo alcuni testi scritti per il libro CHERNOBYL. SCATTI DALL’INFERNO
“Taras, sedici anni…” di Andrea Satta (Tete de Bois)
È difficile immaginare di essere così vicini al mostro. Chernobyl è una parola che fa tanta paura, è un nome proprio diventato sentimento comune, spavento. I muri giganti, il cemento violento, il suono del geiger, la città ferma nel tempo. Tutto è oltre la vita. Vedere le foto, leggere la cronaca al dettaglio di chi ha sfidato la propria carne per raccontare, colpisce al cuore. Io faccio il pediatra nella periferia romana, sono un musicista, canto e scrivo per i Tetes de Bois, ma sono un pediatra, lo faccio quotidianamente e vivo questo mio lavoro tra moltissimi stranieri. Qualche anno fa venni a conoscenza della storia di uno di loro, un papà ucraino di nome Boris. Autorizzato dal protagonista, cominciai a raccontarla in giro e la poi la infilai in un mio libro, perché servisse di memoria, perché fosse un monito di vita vissuta. Realtà prima che politica e salotto. È una storia che parla di Ucraina e bambini, di Chernobyl, di fuga e rinascita …
“Certo, Chernobyl, era il 1986, avevo tredici anni e da lì tutto è cambiato.
È sparita la campagna, la frutta, la verdura, l’estate dalla nonna, l’inverno davanti al fuoco.
Mi hanno preso, qui in Italia, quasi in prova, per un periodo di vacanza.
Mia nonna è morta di tumore, qui da voi sono restato e neanche è stato tanto facile riuscirci.
Unica passione vera per me, la bici, unica pelle di ricambio che mi porto addosso.
A Ferrara, dove approdai all’inizio, ci andavano tutti e, almeno per questo, mi sembrava di tornare bambino.
Le vecchie, i ragazzi, le donne ben vestite, gli uomini al mattino per il turno di lavoro, la vigilessa, il lattaio e il postino.
Io andavo da casa di mia nonna a scuola, anche in pieno inverno, otto chilometri ogni mattino e arrivando sempre in tempo. Conoscevo un cane lupo a metà percorso, la strada era tanto dritta che lo vedevo saltellare nella neve ancor prima di sentirlo abbaiare e da lì era come un film muto. Poi lo raggiungevo e da quel casolare pedalavo sempre insieme al suo padrone, il mio caro amico Taras.
Andavamo insieme, sotto il cielo lungo e silenzioso, sprintando a ogni ponte, a qualsiasi lampione, avvertendo l’altro all’improvviso in modo che non potesse più recuperare… fino al finale nel viale della scuola, con volata nel campo di pallone.
La mia bici era fatta coi pezzi di altre più vecchie, e andava proprio forte.
Mia nonna mi ci aveva cucito un bel sellino, coi colori della Dinamo.
Bianco con la striscia azzurra trasversale.
La squadra del mio cuore.
Anche Taras a sedici anni è morto di tumore”.
“Quando Chernobyl si materializzò a Ostia” di Mario Pillon
Martedì 28 aprile 1986, sono le 9,30 del mattino: esco con la mia auto dal Centro Ricerche Energia dell’Enea di Frascati, dove dal 1984 sono impiegato come ricercatore presso il laboratorio di Neutronica applicata. Devo svolgere alcune commissioni. Rientro verso le ore 10,30 ma alla sbarra d’ingresso al CRE un uomo del servizio di guardia mi blocca l’accesso. Mi fermo, apro il finestrino e l’uomo, facendomi il saluto militare, mi domanda “È lei il dottor Pillon?”.
“Sì”, rispondo, e subito mi sento a disagio, preoccupato. Cosa avrò fatto? Forse nell’uscire con l’auto sono passato troppo velocemente…?
“La cerca urgentemente il dottor Lucci, ci ha dato ordine di condurla subito da lui”.
Franco Lucci era un dirigente di ricerca, il capo del Servizio di radioprotezione e fisica sanitaria dell’Enea di Frascati oltre che il responsabile del servizio di vigilanza del Centro.
Comincio a essere ancora più preoccupato. Franco era un collega, oggi lo definirei un amico, ma allora io ero giovane, da soli due anni dipendente dell’Enea. Avevo lavorato per Franco e credo che lui avesse già un’ottima stima di me come ricercatore, giovane ma bravo e competente.
Cosa avevo mai combinato? Mi sarei preso una strigliata. Stavo entrando nell’ufficio di Franco scortato da una guardia!
“Mario, hai sentito ieri dell’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl? Abbiamo urgenti necessità di fare delle misure di contaminazione ambientale, ordini che vengono dal ministero. Mi servono i tuoi due rivelatori al germanio iperpuro con tutta l’elettronica di acquisizione. Li dobbiamo portare all’edificio Tokamak, nello scantinato, e mi serve anche un tuo aiuto per fare le misure. Iniziamo subito a trasferire tutto”.
Non avevo combinato alcun guaio. Certamente non io.
Dal pomeriggio del giorno successivo cassette di frutta, verdura, latte, campioni di terreno e sabbia del litorale laziale cominciarono ad arrivare al CRE di Frascati e dopo la dovuta preparazione un campione veniva messo sopra uno dei due rivelatori HPGe e misurato.
“Guarda Mario, si vede la riga a 365 keV dello Iodio-131” – mi dice Franco – “E qui a 661 scommetto che comparirà la riga del Cesio; c’è già un accenno ma ci vuole più tempo di conteggio per vederla, ha una vita media di trent’anni”.
Stavamo misurando circa un litro di latte proveniente da allevamenti del nord Italia. Un certo numero di piante di insalata verde erano in conteggio sull’altro rivelatore. Tutti i dati acquisiti venivano memorizzati sull’hard disk da 40 Mbyte di un PC IBM con sistema operativo DOS e poi archiviati su floppy disk da 5¼ pollici.
Dopo pochi giorni smisi di collaborare con Franco alle misure; i colleghi della sua unità avevano imparato presto a gestire i rivelatori e l’elettronica di acquisizione. Sono un gruppo numeroso ed è loro la responsabilità della gestione e della comunicazione dei dati rilevati alle Autorità.
Io ripresi a fare il mio lavoro nell’unità a cui appartenevo. Non so più molto dei valori della contaminazione radioattiva rilevata in Italia, causata dall’incidente di Chernobyl, solo qualche notizia che talvolta mi rivelava Franco, incontrandolo a mensa.
Chernobyl dista circa 1.600 chilometri in linea d’aria da Roma; Franco mi raccontò di aver misurato contaminazione radioattiva perfino nella sabbia delle spiagge di Ostia!
Mi viene da pensare: ma come sarà la situazione lì a Chernobyl, vicino alla centrale nucleare esplosa?
Massimiliano Squillace ce lo racconta oggi in questo bel libro, venticinque anni dopo.