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Carmen Consoli è una cantautrice, lo è a buon diritto. Il modo in cui utilizza le parole è sempre preciso, scrupoloso, affilato, ogni vocabolo – all’interno dei suoi brani – restituisce una sensazione concreta, nitida, mai tiepida. L’ascoltatore non può distrarsi, perché le storie che racconta non sono mai cenni di vita, ma capitoli conclusi e risolti. Le sue canzoni hanno un inizio, una fine e una morale, una ragione che le giustifica, un senso profondo che le spiega. Ogni pezzo è la personificazione di un uomo o di una donna, con i suoi pregi, limiti, imperfezioni, convinzioni e mancanze. Ogni pezzo permette all’ascoltatore di confrontarsi con un’altra persona e, di riflesso, di conoscere se stesso, di osservare la propria verità più intima, perché la scrittura di Carmen Consoli non concede sconti né attenuanti, è spiazzante e incisiva, mai accondiscendente.
La cantautrice catanese, per raccontare le storie dei protagonisti dei suoi brani, utilizza il sarcasmo, l’ironia, nella fattispecie un’ironia amara, tagliente, mai prevedibile o pedante. Le sue canzoni indagano le falle dell’animo umano, la difficoltà di essere e restare umani, di non lasciarsi compromettere dalle disarmonie dei nostri tempi. Non raccontano storie straordinarie, ma di ordinaria quotidianità: i protagonisti sono persone qualunque, che sbagliano per negligenza, paura, distrazione; tradiscono per noia, perché è più semplice che ammettere di essere infelici; sfuggono al dolore, ma non sanno nemmeno cosa li faccia soffrire realmente; riempiono la propria vita di qualsiasi cosa, perché non sanno esattamente di cosa abbiano bisogno. Carmen Consoli svela le debolezze umane con arguzia e ingegno e rivela quanto la nostra società sia guidata e compromessa dall’egocentrismo.
Signor Tentenna e Contessa Miseria, la storia di due persone infelici
Cos’è l’infelicità, se non una mancanza di consapevolezza rispetto a ciò che si è e ciò che si vuole? È questa la domanda che pone le basi a due brani emblematici della carriera di Carmen Consoli, Signor Tentenna e Contessa Miseria, forse non tra i pezzi più famosi, ma certamente tra i più importanti perché ognuno di noi indaghi i propri limiti, le proprie zone d’ombra. Potremmo definirle, a buon diritto, due canzoni curative al contrario: non ci insegnano cosa dobbiamo essere, ma cosa non dobbiamo essere mai.
Signor Tentenna è un uomo insicuro, incapace di scegliere, si mimetizza con lo sfondo opaco della propria vita e si trascina stancamente fino a fine giornata; non si cura di sua moglie, della sua infelicità, del suo dolore sottaciuto e trascurato; non si cura nemmeno di sua figlia, che paga il prezzo di un padre dimesso, impotente, distratto. Un uomo che sfugge al confronto con gli altri e con se stesso, per non rischiare di uscirne sconfitto, e che, di conseguenza, è un perdente (L’ignoranza è un non trascurabile complesso / Una voragine, la si può occultare nel silenzio / Scansando il pericolo di un mite confronto diretto).
Contessa miseria, invece, è una donna adulta e sola, terrorizzata dal passare del tempo e dalle conseguenze che ha sul suo aspetto. Una donna con “la mente ibernata a vent’anni” e il corpo che cerca di fermare il trascorrere degli anni. Una donna profondamente infelice, che cerca di depistare il vuoto che sente per non sentirne il peso, ma che finisce per diventare vittima di se stessa (Contessa miseria la vita prima o poi colpisce a sorpresa / Senza chiedere, senza preavviso / Contessa miseria, la mente ibernata a vent’anni, vittima dell’inganno di questo secolo / Che rincorre il mito di forme avvenenti e di chirurgia estetica).
Due storie diverse, dunque, ma complementari: di fatto, la protagonista, in entrambi i casi, è la paura di non saper affrontare i propri limiti; la soluzione che scelgono i due protagonisti è quella di fuggire a gambe levate per non doversi far carico delle proprie responsabilità, per non dover ammettere i propri timori, per non dover rovinare un equilibrio imperfetto e malsano, ma di fatto confortevole. Preferiscono una infelicità a cui sono già abituati, piuttosto che rischiare una felicità che richiede impegno e determinazione.
Eva, Maria Catena, Tano e altre storie…
I personaggi di Carmen Consoli, dunque, sono degli inetti, degli infelici, uomini e donne che fanno – dei propri limiti – un riparo dalla vita stessa, si trincerano nei propri errori e non cercano una via d’uscita. Un altro esempio emblematico è Tutto su Eva, che racconta la storia di una donna opportunista e traditrice, che non si prende la responsabilità dei propri sbagli, ma li giustifica definendoli fatti casuali (Eppure avrai il coraggio di chiamare l’evidenza casualità), non gesti dettati da un efferata crudeltà. Per discolparsi, giura su Dio di non aver colpe (Piangerai mettendo in scena l’ennesimo dramma / Mentre le lacrime corrono sulle tue guance infuocate, Eva / E giurerai su Dio e su tua madre di non aver colpa mentre le lacrime corrono).
In L’abitudine di tornare, il protagonista è un uomo, che da dieci anni ha una relazione clandestina con una donna da cui ha avuto un figlio. È lei che parla, che racconta di come lui sia “fedele e ancorato all’ovile di sempre”; l’amante è solo una vittima, che – per amore – ha accettato gli avanzi di un uomo che non sa decidere, che forse non deciderà mai e vivrà per sempre nella menzogna (Come dirai a tua moglie che hai un figlio identico a te? / Ha grandi occhi neri e a compiuto tre anni / È piccolo e non può chiedere, lui non deve chiedere / Sarai tu a rispondere se vorrai). E poi c’è Tano, un uomo gretto, ignorante, vile, un prevaricatore. Tano, brano in dialetto siciliano, racconta la storia di una donna sottomessa alla figura del proprio uomo; un pezzo, questo, che – più di mille slogan – riesce a raccontare come la violenza psicologica sia un atto sottilissimo e asfissiante, non meno grave della violenza fisica. È la cronaca di un matrimonio basato sull’ignoranza: lui crede di avere il diritto di poter asservire la moglie, lei crede di aver il dovere di lasciarsi sottomettere.
E poi c’è Maria Catena, brano in cui la cantautrice denuncia non più il comportamento di un singolo, ma di un’intera società marcia e bigotta. Il pezzo racconta la storia di una donna vittima delle calunnie dei compaesani, ma che confida – in cuor suo – in una giustizia divina. Il prete del paese, però, venuto a sapere dei pettegolezzi che circolano, le nega l’ostia durante la Messa. E così ogni menzogna, alla lunga, diventa verità (E stai ancora scontando l’ingiusta condanna / Nel triste girone della maldicenza / E ti chiedi se più che un dispetto / Il tuo nome sia stato un presagio).
Carmen Consoli, che forse alla moda non è stata mai, può concedersi il lusso non comune di essere un’artista senza tempo, senza confini e, soprattutto, senza scadenza. Le storie che racconta sono universali, non hanno sesso, resistono al passare degli anni e si prestano a più letture. E, più di ogni altra cosa, spogliano l’essere umano di ogni ipocrisia e difesa: resta l’uomo così com’è, nudo, inerme, con tutti i suoi limiti riflessi nello specchio in cui è costretto a guardarsi. Carmen Consoli ci costringe a osservare quello che non vorremmo essere mai.
Video
Ascolta i brani sopracitati:
Signor Tentenna
Contessa Miseria
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