“After Work”: il docu-film che racconta la drammatica realtà del mondo del lavoro (di oggi e di domani)

Viviamo la nostra vita in funzione del lavoro, in una sorta di "schiavitù modernizzata", e il peggio è che la tecnologia potrebbe presto cambiare questo assetto: il regista Erik Gandini si chiede come sarà la società del futuro, quando in un modo o nell'altro "non dovremo più lavorare". Un'analisi a tratti drammatica con la voce di uno degli intellettuali più influenti ad oggi, Noam Chomsky

La nostra società, la società capitalistica, si basa sul lavoro: studiamo e ci formiamo per offrirci al meglio nel mondo del lavoro, da giovanissimi iniziamo la spasmodica ricerca di un impiego e, quando lo abbiamo trovato, non siamo soddisfatti e cerchiamo una posizione migliore o più prestigiosa.

Viviamo in un costante stato di frustrazione e insoddisfazione: alla maggior parte delle persone non piace il lavoro svolto, ci si sente sfruttati e poco valorizzati, si percepisce come “sprecato” il tempo trascorso sul luogo di lavoro e tolto alla famiglia, agli hobby, al tempo libero.

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Vi è poi una grave minaccia che incombe sul mondo del lavoro come lo conosciamo oggi e che rischia di sconvolgere gli equilibri finora dati per solidi: la tecnologia. Automazione dei processi e intelligenza artificiale stanno occupando un ruolo sempre più massiccio all’interno dei processi produttivi e dei servizi: si stima che, nei prossimi anni, la metà dei posti di lavoro nel mondo sparirà, occupata da macchine e computer.

Due scenari, quello presente e quello futuro, analizzati in modo spiazzante dal docu-film “After Work” di Erik Gandini, il regista italo-svedese autore anche de “La teoria svedese dell’amore” e di “Videocracy”.

Il documentario viaggia attraverso quattro nazioni che sono un po’ un emblema – Kuwait, Corea del Sud, Stati Uniti e Italia – con uno stesso interrogativo: come cambierà la vita “after work”, “dopo il lavoro” appunto, quando la maggior parte di quello stesso lavoro sarà svolta dalla tecnologia? E poi: è possibile una società in cui il lavoro non sia il fulcro di ogni individuo?

Un viaggio attraverso le storie di persone diverse, provenienti da ogni parte del globo, ognuna con una propria visione del lavoro (e della sua importanza a livello sociale) e per il quale il regista non poteva non avvalersi della collaborazione di Noam Chomsky, intellettuale, scienziato e attivista politico americano tra i più influenti tra quelli viventi.

Di Chomsky è la voce fuori campo, proprio quella di un anziano, roca e flebile, che dice saggiamente:

Nel mondo di oggi, il consiglio migliore da dare a un giovane è prepararsi a trovare un lavoro. Prepararsi a passare la propria esistenza alla mercé di un padrone.

E poi?

C’è chi è pagato per scaldare la sedia e non fare nulla tutto il giorno, chi considera il proprio lavoro una forma di moderna schiavitù, chi ancora si sente “dipendente” dal lavoro e non conosce altro modo di vivere. E poi, figura divenuta sempre più presente nella nostra società capitalistica, c’è il “guru” che spinge al sacrificio estremo, al lavoro stacanovista senza pause, alla rinuncia a ogni altra attività, alla competitività malata, alla corsa per arrivare prima e più lontano degli altri – in una sorta di perversa “ruota del criceto” che in realtà non porta da nessuna parte.

La realtà rappresentata in questo documentario, almeno per quello che riguarda la società occidentale, si riflette in forme di sfruttamento socialmente accettate e sfocia in un ultimo terrificante interrogativo: come fare quando non dovremo più lavorare?

È molto peggio essere irrilevanti che essere sfruttati” si sente dire nel film: meglio avere un lavoro sottopagato e non degno di essere chiamato tale, senza diritti né orari, che essere socialmente inutili.

Il docu-film, distribuito dalla casa cinematografica Fandango, sarà nelle sale a partire dal prossimo 15 giugno.

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Fonte: FilmItalia

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