Potrebbe sembrare una provocazione: per la serie “li vedi quegli asini che volano”? Punti il naso verso l’alto perché in fondo, non si sa mai, ma prevedi già che sia impossibile. Ecco, questa volta magari qualcosa potreste intravedere. Nessuna allucinazione. In cielo, o meglio, sul tavolo, c’è uno studio realizzato in Inghilterra dal titolo “Peak of Stuff”, condotto da Chris Goodall, noto ambientalista anglosassone candidato al Parlamento tra le fila del Green Party, autore di numerosi libri sul tema della sostenibilità ma anche ex consulente alla McKinsey&Company. Uno che sa occuparsi di alberi come di numeri. Un pensatore libero che si è messo ad analizzare i consumi degli Inglesi da dieci anni a questa parte.
Potrebbe sembrare una provocazione: per la serie “li vedi quegli asini che volano”? Punti il naso verso l’alto perché in fondo, non si sa mai, ma prevedi già che sia impossibile. Ecco, questa volta magari qualcosa potreste intravedere. Nessuna allucinazione. In cielo, o meglio, sul tavolo, c’è uno studio realizzato in Inghilterra dal titolo “Peak of Stuff”, condotto da Chris Goodall, noto ambientalista anglosassone candidato al Parlamento tra le fila del Green Party, autore di numerosi libri sul tema della sostenibilità ma anche ex consulente alla McKinsey&Company. Uno che sa occuparsi di alberi come di numeri. Un pensatore libero che si è messo ad analizzare i consumi degli Inglesi da dieci anni a questa parte.
Ebbene, sembra proprio che il Paese che ha dato i natali alla Rivoluzione Industriale, ora stia segnando il passo della controtendenza. I dati dicono che precisamente tra il 2001 e il 2003 la Gran Bretagna ha raggiunto il suo “picco di consumi”: da quel momento in poi si è verificata una lenta ma graduale discesa del fabbisogno di acqua, materiale edile, carta, tessuti fertilizzanti e quanto altro possa essere annoverato sotto la categoria acquisti. Inoltre si viaggia di meno, quindi si consuma meno energia. E nel complesso si producono meno rifiuti.
La prima evidenza è che la Gran Bretagna ha iniziato a ridurre i suoi consumi ben prima del 2008, anno in cui si è cominciato a parlare di crisi economica. Nel report si scrive infatti che il contatore avesse cominciato a segnare una diminuzione del 4% già tra il 2000 e il 2007. Incuriosito da questi interessanti risultati, Goodall ha allungato l’occhio anche verso il Continente. La conferma che il segnale inglese non è isolato è arrivata anche dagli altri paesi europei, dove i livelli di consumo erano diminuiti in media del 9%. Francia, Svezia e Olanda segnavano addirittura un abbassamento del 15%. Anche negli Stati Uniti, a sentire quello che dice il Dipartimento per l’Energia, l’acquisto di auto, croce e orgoglio nazionale, è calato negli ultimi anni.
Ma cosa sta succedendo? Dobbiamo credere che sia una tendenza irreversibile o solo momentanea? L’economia suggerisce una risposta: l’industrializzazione di un paese passa attraverso una fase cosiddetta “economica e sporca” durante la quale si sprecano risorse e si inquina molto. Superato il cosiddetto tipping point o punto di svolta si inizia a investire in un uso più efficiente di quelle stesse risorse. Il Prof. Ausubel, direttore del Programma per l’Ambiente al The Rockefeller University di New York chiama questa seconda fase “de-materializzazione”.
La seconda evidenza è che, a fronte di un minor uso di risorse, in tutti i Paesi segnalati dalla ricerca non è diminuito il PIL. Al contrario, essi hanno continuato a mantenersi su livelli costanti di crescita, anche di fronte alle strutturali minacce degli ultimi anni, andando a confortare l’importanza del decoupling, cioè del disaccoppiamento tra consumo energetico e capacità di crescita come principio economico che potrebbe condurre a uno sviluppo sostenibile.
Le motivazioni che possono sottendere a una società capace di consumare in modo più efficiente sono molteplici. Prova a elencarle Fred Pearce, consulente per la rivista The Scientist e collaboratore del quotidiano The Guardian, in un commento all’analisi di Goodall. Tra queste annovera l’invecchiamento dei Paesi Occidentali, che implica un rinnovamento in genere più lento del “parco consumi” e la presenza diffusa di social media e di una “cultura dell’urbanismo” che ha aumentato le forme di condivisione. “Non c’è dubbio però– dice il prof Pearce – che un’interpretazione razionale non può fare a meno di considerare la vittoria delle incessanti campagne ambientaliste, le quali hanno evidentemente inciso sui nostri comportamenti quotidiani, sul nostro lifestyle e sullo sviluppo di tecnologie che usano in maniera più efficiente le risorse”.
Non alziamo però grida di esultanza. E i motivi sono altrettanto evidenti. Il nostro passato, e in molti casi ancora presente, vorace di risorse fossili è lì a ricordarci che l’ambiente necessita centinaia di anni per tornare al suo naturale equilibrio. In secondo luogo, in questo momento ci sono numerosi Paesi che sono ancora quella fase produttiva “economica e sporca”, mentre altri ambiscono presto ad arrivarci. Dovremo aspettare il loro picco di consumo o saremo capaci di trasferire la conoscenza acquisita per riuscire a usare le risorse in maniera maggiormente efficiente?
Pamela Pelatelli