E se piantare alberi facesse "più male che bene"? Gli esperti lanciano l'allarme: bisogna capire quale specie piantumare e dove
E se piantare alberi facesse “più male che bene”? Gli esperti lanciano l’allarme: bisogna capire quale specie piantumare e dove
Piantare alberi è senza dubbio un’azione virtuosa per chi crede nella necessità di contrastare l’impatto negativo dei cambiamenti climatici globali. Ma non del tutto. In un recente studio pubblicato su Global Change Biology, alcuni esperti di botanica e discipline affini hanno individuato una serie di rischi connessi alla inefficace gestione delle numerose campagne “verdi” − sia globali che locali − che includono anche iniziative per piantare alberi.
Obiettivo di tali iniziative è assorbire CO2 e ridurre l’inquinamento atmosferico, ma se gli alberi vengono piantati in massa e in luoghi non idonei e se le specie selezionate non sono adatte a quell’ecosistema locale, il rischio è sortire l’effetto contrario. Piani di riforestazione di massa possono infatti ridurre drasticamente la biodiversità invece di favorirla, con effetti piuttosto risibili sia in termini di assorbimento che di fissazione del carbonio nella biomassa dei nuovi alberi.
Ma gli autori di “Dieci regole d’oro per il rimboschimento per ottimizzare il sequestro del carbonio, il recupero della biodiversità e i benefici per il sostentamento” avanzano ben più di qualche perplessità. E non sono neanche gli unici a farlo…
Gli effetti negativi delle campagne globali di riforestazione di massa
Ad esempio, in un altro studio sulle foreste cilene, pubblicato il 22 giugno 2020 sulla rivista Nature Sustainability, gli autori rilevano come l’attuale approccio globale all’espansione delle foreste sia erroneamente fondato sull’introduzione di un gran numero di specie esotiche in un ecosistema forestale preesistente. Da un lato, tale politica espansiva, sostenuta in molti casi da ingenti sussidi pubblici, può aumentare in maniera significativa la copertura arborea, ma dall’altro rischia di ridurre drasticamente l’area destinata alle foreste native.
Sarebbe quindi opportuno che le politiche globali (e nazionali) finora messe in campo per promuovere le opere di riforestazione di massa non perseguano fini puramente utilitaristici, ma siano ispirate all’impegno ecologico di conservare e proteggere le foreste native.
Gli autori dell’articolo scientifico sostengono, in particolare, che due campagne globali abbiano avuto risvolti più negativi che positivi.
Degna di nota è, innanzitutto, la campagna globale Trillion Trees e la correlata iniziativa statunitense del Trillion Trees Act (H. R. 5859), sottoposta al Congresso USA. Persino il presidente statunitense uscente Donald Trump aveva appoggiato l’iniziativa “green” di piantare alberi, sposata nel Regno Unito anche dal premier inglese Boris Johnson, che l’aveva usata come spot elettorale alle elezioni politiche del dicembre 2019, promettendo di piantare nel paese 2 miliardi di alberi entro il 2040.
Un’altra importante iniziativa in tal senso è la cosiddetta Bonn Challenge, a cui hanno aderito una quarantina di paesi del mondo. Merito dell’iniziativa è aver fissato l’obiettivo globale di recuperare entro il 2020 ben 150 milioni di ettari di terreni impoveriti e deforestati, per raggiungere i 350 milioni di ettari entro il 2030.
Secondo gli scienziati, i due progetti sono in parte insostenibili perché se sostituiamo progressivamente le foreste naturali con piantagioni monocolturali ovvero con gruppi di alberi appartenenti a specie limitate (seppur profittevoli perché magari producono frutti o gomma), incentiviamo la perdita di biodiversità invece di combatterla. Tipicamente, le piantagioni hanno una minore capacità di cattura del carbonio, di creazione di habitat e di controllo dell’erosione del suolo rispetto alle foreste ancestrali. Pertanto, i potenziali benefici che potrebbero derivare dalle campagne di riforestazione di massa sono effimeri. Quando le piantagioni di alberi sostituiscono le foreste native, i terreni da pascolo o le savane, quegli ecosistemi naturali vengono completamente distrutti e (almeno finora!) non è possibile ricrearli ex novo artificialmente. L’evoluzione degli ecosistemi risponde infatti a logiche diverse da quelle “umane”; essa ha portato alla creazione di specie uniche, adattatesi a quello specifico ecosistema naturale e non ad altri.
Incentivi statali alla riforestazione selvaggia vs. rispetto degli ecosistemi locali
Quando il profitto che deriva dal piantare nuovi alberi sovrasta le esigenze di conservazione dell’habitat naturale, inizia il vero dramma. Ad esempio, i sussidi statali stanziati in Cile nel periodo 1974-2012 per incoraggiare i proprietari terrieri privati a piantare alberi in modo massiccio avrebbero causato gravi danni ambientali, sociali ed economici. I proprietari privati hanno approfittato del vantaggio di ricevere considerevoli sussidi statali, che coprivano il 70% dei costi del singolo progetto di rimboschimento. Però, dal punto di vista ambientale, le piantagioni monocolturali hanno occupato proprio quelle macchie di vegetazione e quei terreni agricoli incolti dove le foreste native si sarebbero potute rigenerare naturalmente.
In conclusione − osservano gli scienziati in un altro studio sulle iniziative di riforestazione realizzate nel nord della Cina negli ultimi quattro decenni per arrestare la desertificazione e strappare terreno al deserto del Gobi − tutto dipende dalle specifiche condizioni locali. In altre parole, se piantiamo nuovi alberi in terreni dove il carbone immagazzinato è scarso, allora aggiungere nuovi alberi può aumentare la densità del carbonio organico. Se però i terreni sono già ricchi di carbonio, aggiungere nuovi alberi diminuisce tale densità.
Fonti: PubMed/Science Daily
Leggi anche:
Come cambiare il mondo seminando e piantando alberi
Il settantenne senza gambe che ha piantato più di 17mila alberi per le generazioni future