Nel cuore di Fukushima con una mini fotocamera nascosta in un orologio da polso. Sotto le false spoglie di un operaio di una ditta appaltatrice, un giornalista giapponese è riuscito a riprendere per un mese i lavori all’interno della centrale nucleare di Fukushima Daiichi, documentando le condizioni di lavoro inaccettabili dei lavoratori, l’assenza di verifiche, i battibecchi tra i costruttori Toshiba e Hitachi, che avrebbero tentato di nascondere e insabbiare numerose informazioni.
Nel cuore di Fukushima con una mini fotocamera nascosta in un orologio da polso. Sotto le false spoglie di un operaio di una ditta appaltatrice, un giornalista giapponese è riuscito a riprendere per un mese i lavori all’interno della centrale nucleare di Fukushima Daiichi, documentando le condizioni di lavoro inaccettabili dei lavoratori, l’assenza di verifiche, i battibecchi tra i costruttori Toshiba e Hitachi, che avrebbero tentato di nascondere e insabbiare numerose informazioni.
“Nessun progresso è stato fatto” verso la risoluzione finale della crisi, spiega in una conferenza stampa del 15 Dicembre il giornalista Tomohiko Suzuki , che ha da poco reso pubbliche le immagini scattate e un video inedito. L’acqua contaminata usata per il raffreddamento del reattore si accumula ancora nei serbatoi (come ha poi avrebbe dimostrato la fuoriuscita di corium dei giorni scorsi) , i materiali contenenti combustibile (Fuel Containing Material – FCM) delle unità 1, 2 e 3 non sarebbe stati ancora individuati e alcuni tubi utilizzati durante l’emergenza sarebbero di scarsa qualità.
Quando alle condizioni di lavoro degli operai, il giornalista spiega che non c’è stato modo di trovare le persone che erano lì a marzo e ad aprile, quando, in preda al panico iniziale, i lavoratori sono stati molto esposti alle radiazioni. Nel tentativo di portare a termine il proprio lavoro, hanno superato di gran lunga il limite di tempo consentito per l’esposizione. Molti non hanno nemmeno potuto portare con sé i loro dosimetri, piccoli dispositivi usati per determinare l’esposizione individuale alle radiazioni ionizzanti, per evitare di doversi fermare. Oppure erano costretti a nasconderli nelle calze per aumentare il tempo a disposizione. Il numero degli operai malati non è noto, spesso svaniscono nel nulla. Soprattutto perché non sono autorizzati a parlare, come previsto nel loro contratto di lavoro.
Tutte informazione tenute nascoste ai giapponesi, mentre il governo giapponese e la TEPCO forniscono dati fuorvianti alla nazione e al mondo sulla gravità del disastro, spiega Suzuki, che è riuscito a rimanere all’interno dell’impianto come operaio generale della società Toshiba Corp. dal 13 luglio fino al 22 agosto, quando la sua vera identità è stata scoperta. Anche i lavori di messa in sicurezza erano scadenti: la TEPCO, per risparmiare, aveva cominciato a rifiutare qualsiasi idea intelligente proposta. Si è trattato più di un’operazione di cosmesi, di uno show, che di una vera e propria operazione di messa in sicurezza. Nel frattempo pregava gli imprenditori di “inviare uomini a cui non importava di morire“.
Ed ecco allora apparire la longa manus della Yakuza, la mafia giapponese che, sempre secondo Suzuki, si è occupata del reclutamento degli operai da impiegare nelle imprese edili impegnate nella massiccia ricostruzione. Almeno il 10% dei lavoratori proverrebbe dall’intervento della mafia, che beneficiava, ovviamente, di una parte dello stipendio. E se si considera che Tomohiko Suzuki è stato pagato come operaio tra i 147 € e 197 euro al giorno o tra i 735 € a i 985 euro a settimana per 5 giorni, si capisce quanto la Yakuza avesse da guadagnare da quest’operazione.
Ma gli intrallazzi tra i gangster giapponesi e l’industria nucleare, erano cosa già nota anche prima dell’incidente, come documentava sempre Suzuki nel libro “Il potere della Yakuza nel nucleare”. Ed è anche per questo che l’organizzazione criminale ha inviato subito dopo il disastro 70 camion carichi di acqua, generi alimentari, coperte e beni di prima necessità ai centri d’evacuazione della devastata regione settentrionale, per un valore complessivo di 350 mila euro. Probabilmente già si preparava ad assoldare per la TEPCO l’esercito di disperati “a cui non importava di morire”.
Roberta Ragni