L’insostenibile leggerezza del report di sostenibilità. Ne abbiamo ancora bisogno?

Pensare che sia il report di sostenibilità a creare un processo di cambiamento culturale è come affermare che il bilancio di un’azienda possa creare nuovi valori per guidarla nel futuro. Ha senso comunicare e rendicontare la sostenibilità, crederci, investirci e renderla trasparente, senza prima aver preso consapevolezza di cosa significhi veramente?

Aziende protagoniste della transizione ecologica e del cambio di paradigma

In linea con le priorità individuate dalla comunità scientifica internazionale per ridurre il riscaldamento globale e il cambiamento climatico e con gli obiettivi indicati dall’Agenda 2030, l’Unione Europea ha rafforzato a gennaio 2024 le regole in materia di responsabilità aziendale e rendicontazione di sostenibilità.

Sempre più imprese sono chiamate a fare chiarezza, in modo tracciabile e trasparente, sul proprio operato nel perseguire lo sviluppo sostenibile. 

Con l’introduzione della Dichiarazione Non Finanziaria (DNF) nel 2016, la reportistica di sostenibilità era stata resa obbligatoria per le sole aziende quotate con almeno 500 dipendenti, per le banche, per le assicurazioni, e per gli enti di interesse pubblico. Oggi, con il recepimento della Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e l’adozione degli standard ESRS, l’obbligo del bilancio di sostenibilità si estende, con introduzione cadenzata, ad una schiera sempre più ampia di imprese. Una spada di Damocle per l’imprenditoria? Una chiave su cui fare leva di marketing? Un boomerang per l’imprenditore ignaro della situazione della sua azienda in un mondo che non può prescindere dalla sostenibilità?

Gli strumenti ci sono, e la volontà?

“I limiti della crescita” del Club di Roma del 1972, il Rapporto Bruntland del 1987, la “Triple Bottom Line” di Elkington del 1994, gli studi dell’economista ed ecologista James Gifford dei primi anni 2000, sono solo alcune delle tappe con cui si sono andate via via delineando in modo sempre più chiaro ed universalmente riconosciuto la definizione di sviluppo sostenibile (che non stiamo qui a riproporre, ndr.) e l’individuazione delle componenti essenziali su cui valutare la sostenibilità di un’azienda.

Oggi sono i criteri ESG (Environment, Social, e Governance) i pilastri di riferimento per l’impostazione di obiettivi e per comunicazioni e confronti, e trovano la loro più rigorosa e codificata declinazione nei diversi framework di rendicontazione disponibili, dei quali il GRI Standard (Global Reporting Initiative) è il più diffuso. In ottica di estensione dell’obbligo di rendicontazione e di uniformizzazione della stessa, l’Europa, in linea con le strategie del Green Deal, ha introdotto con la Corporate Sustainability Reporting Directive lo standard ESRS. Amalgama di culture e storie politiche differenti, visioni e priorità spesso divergenti, sarà in grado l’Unione Europea di mantenersi salda nella direzione presa in tema di reportistica sulla sostenibilità?

Ma non è solo una questione politica. Il successo della pratica della rendicontazione dovrebbe essere il frutto dell’affidabilità delle dichiarazioni in esso contenute, a valle di un processo di strategia aziendale capace di creare innovazione e creatività sui temi di materialità. Purtroppo, troppo spesso, la strategia che dovrebbe essere il primo passaggio in un processo di costruzione di business, viene trascurata o ignorata per raggiungere l’obiettivo finale del report.

Ha dunque senso sostenere i costi della produzione del bilancio di sostenibilità, considerando il forte legame che c’è tra l’operare bene e il comunicare bene? Nessuna delle due attività infatti, sviluppata singolarmente, porta alla creazione di un valore spendibile e comunicabile.

Luci e ombre di un sistema che sembra non centrare l’obiettivo

Chi fa consulenza e parla con gli imprenditori tutti i giorni ha l’opportunità di catturare un’istantanea delle aziende, visionarne i bilanci – finanziari e non – e toccare con mano la rispondenza con le politiche, le strategie, le scelte, e le iniziative aziendali. Marco Piermarini e Giulia Safina, consulenti in Combais SB in percorsi di sviluppo e crescita sostenibile per le imprese, illustrano alcune loro perplessità sul tema della rendicontazione di sostenibilità sulla base delle criticità riscontrate nel corso dell’attività professionale.

Cos’è che sembra non funzionare nella logica del report di sostenibilità?

Consapevoli che allo stato attuale la percezione degli imprenditori è quella di sentirsi aggrediti e obbligati (da partner, fornitori, clienti, istituzioni) ad adeguarsi a certi standard, con la conseguente reazione di correre ai ripari dotandosi al più presto di un bilancio di sostenibilità pur non essendo in possesso di una strategia coerente e di una strutturazione adeguata, ci sembra legittimo chiedersi se il ricorrere tout-court alla redazione del report sia o meno la soluzione più idonea. A noi consulenti – segnala Piermarini – le aziende fanno la richiesta del report proprio come primo passo al mero fine di avere uno strumento che soddisfi una richiesta del mercato. Non si pongono però il problema di capire il senso profondo del percorso che andrebbe intrapreso.

Quanto è difficile in azienda costruire una cultura della sostenibilità?

Far comprendere alle aziende che il primo modo per essere sostenibili è attuare un cambiamento della cultura aziendale è essenziale, ma al tempo stesso complesso – suggerisce Safina. Sono poche le realtà che hanno il coraggio di mettere in discussione il loro modo di pensare e di fare business, forti dei profitti e dei risultati economici raggiunti.

Solo una volta che l’azienda ha capito qual è la sua identità e il valore che vuole portare sul mercato può instaurare un legame con i propri stakeholder.

Tuttavia, elementi come il clima aziendale, la soddisfazione del personale, il coinvolgimento degli stakeholder e la creazione di una cultura sostenibile, sono componenti chiave che oggi le imprese non possono più sottovalutare.

E la reportistica? La criticità potrebbe essere la presenza di troppe variabili?

Uno dei rischi è il delinearsi di un sistema molto flessibile che con tanti standard diversi e diverse modalità di rendicontazione per rating ESG, permette alle organizzazioni di scegliere il proprio percorso senza che questo generi un reale ed oggettivo elemento di valutazione” – prosegue Piermarini. Ci sono tante certificazioni sul mercato, molte di queste sono frutto di scelte che possono apparire utili e/o opportune per quell’azienda o per quel mercato. Purtroppo, in molti casi, si tratta di percorsi di autocertificazione che non prevedono un processo di cambiamento e valutazione strutturale. Restituiscono un valore o un comportamento, ma talvolta dietro a quel dato non c’è una strutturazione che guidi il processo dell’azienda nella direzione attesa. In tante reportistiche si trovano processi di copia ed incolla dei temi di materialità da un anno all’altro e si vede l’inserimento di progetti ed attività che hanno scarsa ricaduta concreta sull’impatto che l’azienda ha sui temi concreti che dovrebbe affrontare. Si evitano gli argomenti scomodi e ci si confronta con il percorso migliore per l’azienda, e purtroppo questo comporta che il reale impatto positivo non sarà raggiunto e nemmeno incluso nel processo di pianificazione.

Alcune possibili soluzioni

Dove intervenire per perseguire obiettivi tanto ambiziosi?

In questo processo di rinnovamento, la Governance gioca un ruolo fondamentale. Riorientare Vision e Mission in ottica sostenibile significa investire in formazione e organizzazione dei processi – prosegue Safina – con l’obiettivo di eliminare i costi operativi inefficienti e offrire sul mercato prodotti e servizi a prezzi competitivi. È solo con questo approccio quindi, con la redazione di un Report di Sostenibilità associata alla realizzazione di percorsi di rinnovamento strategico, che si può costituire uno strumento valido per un monitoraggio e un miglioramento continuo delle performance.

Un processo di cambiamento che faccia leva sulla sostenibilità, cosa si intende?

Sicuramente non si tratta di una mera adozione di standard per risparmiare energia e materie prime, o almeno non solo; questo è certamente un parametro che dimostra sensibilità verso la natura, ma non stiamo lavorando soltanto per tutelare l’ambiente, e farlo a discapito delle persone o trascurando gli individui risulterebbe un boomerang. Deve esserci un impegno diretto tangibile e quantificabile su tutti gli ambiti dell’espressione ESG, per cui anche governance e social richiedono un investimento da parte delle organizzazioni. Un investimento che spesso è minore in termini di impatto economico, ma sostanziale come ricadute in quanto volto a modificare la cultura con la quale l’azienda opera. Ovviamente modificare aspetti legati alla cultura vuol dire intervenire in processi di sensibilizzazione e formazione, passaggi essenziali ed utili anche a generare una migliore integrazione delle diverse generazioni e visioni che sono presenti in tutte le aziende. Per tagliare questo traguardo, serve la costruzione di un piano formativo delle risorse umane che sostenga i processi di innovazione e cambiamento dell’azienda.

Da dove possono cominciare le aziende?

Un primo consiglio è quello di non parlare più di sostenibilità! O almeno, parlarne con consapevolezza e con termini diversi. Può sembrare un controsenso, è vero, ma ormai questa parola viene abusata e spesso snaturata. Il nostro suggerimento è quello di intraprendere un percorso identitario forte, in grado di restituire le risposte necessarie a comprendere chi sia l’azienda e quali siano i suoi valori fondanti. Concentrarsi quindi su una dimensione olistica degli ESG che comprenda l’interesse per le persone, per la comunità e per il valore che ogni impresa può generare con il loro operato, darà frutti in termini economici, di produttività e di soddisfazione generale.

Saranno in grado, imprenditori e consulenti, di comprendere e trasmettere in azienda principi, strategie, priorità e interventi indispensabili per affrontare al meglio la quinta rivoluzione industriale e i rapidi cambiamenti che la caratterizzano?

Di Luca Rossi, Marco Piermarini, Giulia Safina

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