La tigre di carta: continua la guerra tra le certificazioni forestali

Continua la sfida delle certificazioni forestali tra FSC e PeFC a colpi di report e dossier che svelano gli interessi al di là della salvaguardia ambientale

Ricordate il video sconvolgente che testimoniava la morte di un giovane maschio di tigre di Sumatra finito prigioniero in una trappola? Bene. Secondo Greenpeace una delle cause di questo “concentrato di tristezza e follia” andava ricercato nelle “certificazioni concesse con facilità dalla Pefc” che, secondo Chiara Campione, responsabile della campagna Foreste di Greenpeace Italia, “invece di fornire il logo a diversi prodotti di APP dovrebbe interrompere immediatamente ogni legame”.

E così, come un sasso nello stagno, la sfortunata tigre di Sumatra ha provocato una serie di reazioni a catena, a colpi di comunicati stampa e post nei blog.

Anche su greenMe.it, l’articolo in questione era stato commentato da Antonio Brunori Segretario Generale PEFC Italia. “Ancora una volta l’associazione ambientalista ha voluto creare un accostamento incomprensibile e assolutamente improprio tra ciò che avviene nelle foreste indonesiane gestite dalla multinazionale APP e le attività del PEFC, rendendosi responsabile di una serie di scorrettezze e falsità estremamente gravi, al limite della diffamazione”, commentava Brunori, definendo Greenpeace “un supporter del sistema di certificazione antagonista”. E ha anche ricordato che il PEFC non è un organismo di certificazione, ma ne fissa solo gli standard. Oltre al fatto che nessuna foresta indonesiana è certificata PEFC.

Le argomentazioni di Brunori sono state diffuse ufficialmente da una nota del PEFC, in cui si smentiva il collegamento tra la morte della tigre e l’organismo di certificazione, che non avrebbe rilasciato il proprio marchio in Indonesia: “attualmente gli unici due sistemi attivi nella certificazioni delle foreste Indonesiane sono LEI e FSC”, si legge nel comunicato. “Inoltre, tutte i sistemi di certificazione forestale -prosegue la PEFC- consentono l’inclusione di una parte di legno non certificato nei prodotti che ottengono il marchio, purché non provengano da fonti controverse”.

E così, replica dopo replica, la vicenda ha assunto per l’ennesima volta i tratti di una vera e propria bagarre tra “standard di certificazione” dell’origine sostenibile della cellulosa e della carta riciclata: il PEFC (Programme for Endorsement of Forest Certification schemes) da una parte e l’FSC (Forest Stewardship Council), nel quale opera attivamente la stessa Greenpeace e sostenuto anche dal WWF.

La risposta di Greenpeace, ovviamente, non si è fatta attendere: Chiara Campione ha ribattuto a Brunori e alla PEFC sul blog di Greenpeace, affermando di non aver mai sostenuto “che il PEFC certifichi foreste in Indonesia, bensì che prodotti certificati PEFC possano essere contaminati da fibre provenienti dalla distruzione delle foreste”. Per la Campione il problema è nei “Mixed sources”, ovvero “tutti quei prodotti costituiti da una certa percentuale di fibre certificate (per esempio il 70%) e, per il resto, costituiti da fibre che devono essere ‘verificate’ al fine di escluderne la provenienza da ‘fonti controverse‘”.

E qui casca l’asino! – prosegue la Campione- Perché un discreto numero di concessioni di APP in Indonesia sono state verificate secondo gli standard del PEFC come fonti non controverse, quindi legali, da SGS (un ente certificatore accreditato dal PEFC)”.

Da qui, l’ennesima rivendicazione della Pefc, che ricorda che l’SGS è un organismo indipendente accreditato “anche per lo schema FSC o per la ISO 14001”.

Insomma, siamo alle solite, proprio come era successo l’anno scorso con la pubblicazione della guida verde “Foreste a rotoli” per l’acquisto responsabile di carta igienica, rotoloni, tovaglioli e fazzoletti usa e getta di Greenpeace .

Ora, al di là delle questioni tecniche, ciò che viene da chiedersi è quali interessi si nascondano davvero dietro il complesso sistema delle certificazioni forestali. “E qui casca l’asino”, verrebbe da dire alla Campione. Sì, perché proprio in questi giorni il Congress Of Racial Equality (CORE) ha pubblicato un rapporto (qui trovate l’intero PDF in inglese) che dimostra come sia proprio lo standard FSC ad essere il meno sostenibile dal punto di vista ambientale.

Il documento mette sotto accusa Greenpeace Italia per le affermazioni diffamanti sugli altri standard di certificazione: il dubbio che si insinua è che l’indefesso lavoro di promozione della certificazione FSC fatto da Greenpeace e dal WWF abbia come scopo principale solo la salvaguardia dei loro interessi, e non quella dell’ambiente.

Greenpeace ha cercato di sensibilizzare i consumatori, sia individui che imprese, ad utilizzare il loro potere di acquisto per comprare esclusivamente legno e altri prodotti forestali ‘approvati’ da organizzazioni non governative ‘verdi’, in particolare quelli certificati dal Forest Stewardship Council (FSC), il Consiglio per la gestione delle foreste”, si legge nel report. “Per assicurarsi che l’FSC mantenga una posizione dominante tra i vari sistemi di certificazione –continua il dossier- WWF e Greenpeace lavorano a fianco di altre associazioni che fanno lobbying, come il Rainforest Action Network, e favoriscono gli interessi del settore industriale e sindacale dei Paesi sviluppati, scoraggiando le importazioni a prezzo concorrenziale dai Paesi in via di sviluppo e ‘gonfiando’ la domanda di prodotti certificati FSC, per lo più provenienti dal mondo ricco”. Insomma, secondo il CORE Wwf e Greenpeace “hanno esercitato un’azione di lobbying sui consumatori e sulle imprese, per convincerli a comprare ed utilizzare unicamente prodotti di carta provenienti da fonti certificate FSC”.

Sempre in questi giorni, giusto per buttare ancora più benzina sul fuoco, è stato diffuso anche “Pandering to the Loggers”, un altro report che punta il dito contro la Global Forest and Trade Network del WWF. Dopo Der Pakt mit dem Panda (Il patto con il panda), un documentario realizzato da Wilfried Huismann andato in onda poche settimane fa alla TV Tedesca, ecco arrivare “Pandering to the Loggers”che, diffuso da Global Witness, accusa ancora una volta di collusione con le imprese l’organizzazione del panda.

Nel mirino del report sono finite alcune aziende fregiate del prestigioso riconoscimento GFTN: la Danzer Group, accusata di “violazioni dei diritti umani” in Congo, la malaysiana Ta Ann Holding Berhad, che ogni giorno sfrutta l’equivalente di 20 campi di calcio in una zona che, oltretutto, è habitat della specie protetta dallo stesso WWF orangutan, e l’inglese Jewson, colpevole di acquistare legnami da fonti illegali.

Il quadro che emerge da tutte queste vicende appare davvero inquietante. Accuse sempre più pesanti che gettano fango sulla credibilità delle stesse associazioni che difendono l’ambiente. Allora di chi bisogna fidarsi? Da che parte sta la verità? Le certezze di un tempo barcollano come un instabile castello di…. carta.

Resta il fatto che, mentre si consuma questa lotta tra schemi di certificazione concorrenti, si perde di vista l’obiettivo comune, la salvaguardia delle foreste.

E le tigri continuano a morire.

Roberta Ragni

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