Meno (e condiviso) è meglio. Viaggio tra le nuove idee di consumo

Le definizioni mediatiche li hanno già timbrati come Generazione Zero, Grassroot Generation oppure Minimalisti. Non promuovono manifesti artistici né rivoluzioni culturali, ma in modo silenzioso e privo di riferimenti ideologi di stampo economico progressista, applicano pratiche di consumo completamente diverse da quelle a cui la società è abituata da alcuni decenni.

Gli economisti li temono. I governi li osservano. I pubblicitari li studiano. Sono generalmente giovani, tecnologici, consapevoli, fiduciosi nei confronti dell’altro e vogliono vivere leggeri. Sono i consumatori del Nuovo Millennio. Sono i figli della generazione che ha fatto del consumo materiale e dell’accumulazione, il simbolo del proprio benessere. E ora che si sono fatti grandi, rifuggono il modello genitoriale per cercare stimoli e opportunità di ricchezza in altre e nuove forme di “avere”.

Le definizioni mediatiche li hanno già timbrati come Generazione Zero, Grassroot Generation oppure Minimalisti. Non promuovono manifesti artistici né rivoluzioni culturali, ma in modo silenzioso e privo di riferimenti ideologi di stampo economico progressista, applicano pratiche di consumo completamente diverse da quelle a cui la società è abituata da alcuni decenni.

Ciò che li accomuna è uno slogan noto agli architetti più radicali: “Less is more”. Meno è più. Che in questo caso si traduce in: sottrarre per aggiungere. Alleggerirsi per vivere meglio. L’obiettivo è quello di cominciare a eliminare l’acquisto del superfluo per concentrarsi sull’essenziale. Meno accumulazione, più condivisione. Meno oggetti, più persone. Meno produttività, più creatività.

Complici la diffusione della rete da un lato e la crisi economica dall’altro, sono venuti a galla in pochi anni sia i rischi collegati alla crescita progressiva e continua del tipo di consumo che ha contraddistinto i Paesi Occidentali negli ultimi cinquant’anni, sia le opportunità che il web ha aperto sotto forma di nuove modalità di acquisto e/o scambio di oggetti ed esperienze.

Da qualche mese negli Stati Uniti, terra dei parossismi e delle contraddizioni, sono nate frange di fan e appassionati che seguono con interesse le vicissitudini di alcuni blogger intenti a raccontare come le loro vite siano notevolmente migliorate da quando hanno deciso di ridurre in modo drastico il numero di oggetti in loro possesso. Minimalstudent.com riporta il life streaming di una giovane studentessa il cui guardaroba è stato ridotto al minimo indispensabile. Guynameddave.com è la storia di Dave Bruno, trentasettenne imprenditore di San Diego, che ha deciso di vivere con soli 100 oggetti. La sua esperienza è nata quasi due anni fa quando annunciò di voler drasticamente ridurre in dodici mesi il numero delle cose possedute e oggi racconta come questo gli abbia permesso di liberarsi, tra gli altri, anche di molti litri di caffè.

La digitalizzazione ha sicuramente facilitato il percorso di abbattimento del numero di libri, cd, dvd, riviste, guide, giochi, biglietti aerei, impianti stereo e video… permettendo di racchiudere tutto dentro un unico computer.

La sostituzione del materiale in immateriale è un primo passo verso il superamento del feticismo consumistico. In questa direzione la rete ha permesso di sviluppare numerosi servizi che consentono di entrare a far parte di community attraverso le quali superare il problema dell’acquisto e accedere al mondo dello scambio. Da diversi anni è attivo in tutto il mondo il servizio di couchsurfing, con il quale migliaia di persone viaggiano da una città all’altra grazie all’ospitalità di qualcuno che li accoglie per i giorni della permanenza. Sulla scia del successo del “fenomeno del divano” in Italia è nato scambiocasa.com: un’idea che permette di andare in vacanza usufruendo dell’appartamento di qualcuno a cui, a nostra volta, si è concesso di pernottare in casa nostra. La differenza tra questi servizi e quelli indicizzati nel preventivo di un tour operator, oltre che nel portafogli, sta nella dose di fiducia che si deve abbinare al prossimo.

La stessa fiducia che ci vuole quando si decide di eliminare il problema dell’auto e intraprendere un viaggio in carpooling, condividendo il mezzo e la strada con uno sconosciuto, per andare da un posto all’altro. Il governo della California, forte del numero di ragazzi che aderiscono al fenomeno, ha deciso addirittura di incentivarlo aprendo corsie preferenziali per coloro che viaggiano in questo modo.

La fiducia è lo stesso valore che sta alla base di un’idea ancora più estrema come quella del co-buying. Da un po’ di tempo sta prendendo piede in Inghilterra: si fonda sulla presenza di una comunità di persone, spesso sconosciute tra di loro, disposte a collaborare per acquistare insieme beni immobili o fare investimenti di matrice economico-imprenditoriale. Tutto è regolamentato secondo uno statuto interno che entrambe le parti devono rispettare.

Non molto distante da questi esempi è il fiorire costante di siti che consentono di affittare qualsiasi tipo di oggetto per periodi di tempo limitati. Il fenomeno è nato soprattutto in relazione al mondo della moda, per controbattere l’abbreviarsi della stagionalità degli abiti, ma si sta velocemente espandendo anche ad altri settori di consumo. Si va dai gioielli da sposa agli abiti premaman, dalle borse alle barche, alle cassette per gli attrezzi. Nella mappa delle iniziative che incentivano a liberarsi dagli oggetti si trovano anche gli swap party e il baratto che recuperano il principio sociale dello scambio economico in quanto esperienza che associa all’atto del consumo una situazione di relazione e condivisione umana spesso irrintracciabile nella condizione classica di acquisto.

Se un tempo queste pratiche avevano il retrogusto della cultura hippie, o odoravano di nostalgia da sessantotto mai realizzato, oggi si rivelano prive di riferimenti politici o ideologici. Emanano l’afflato di una società che tenta di ricostituirsi secondo regole proprie e modelli di cooperazione generati dal basso. È una società che, consapevole dello stato delle cose, ma priva di una forte carica di protesta, agisce in modo autonomo e rigenerativo. Di recente ha cercato di delinearne le caratteristiche anche il noto economista Jeremy Rifkin nel suo ultimo saggio La civiltà dell’empatia (Mondadori, 2010). Qui egli dichiara che: “La generazione che si è affacciata alla conoscenza nel terzo millennio dà per scontato che il mondo è fatto di condivisione e cooperazione. Questi ragazzi abituati a usare Skype per parlarsi col compagno di Tokyo intuiscono che siamo un’unica famiglia planetaria, per loro è più facile comprendere che ogni gesto quotidiano in ogni angolo del mondo ha un impatto in tempo reale sulla biosfera e colpisce la specie umana ovunque essa si trovi. Lì si è già avviata la transizione verso una nuova forma di coscienza”.

Il modello descritto da Rifkin è rintracciabile in numerosi movimenti nati in modo spontaneo nella società civile a livello globale. Se negli Stati Uniti il network della Smart Growth Society ha stilato un manifesto in dieci punti per delineare un percorso di crescita sostenibile ed equo, in Europa da tempo si parla di Decrescita. Nato come un movimento di nicchia, esso si è diffuso nella coscienza collettiva. Non più teoria per pochi, ma paradigma culturale con cui la società sta cominciando a confrontarsi. Perché come dice il suo fondatore, l’economista e sociologo Serge Latouche, “una società della decrescita non comporta un regresso sul piano del benessere”, ma parte dalla consapevolezza dell’esigenza di una rifondazione delle dinamiche sociali in chiave eco-logica e quindi mirata a Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.

Affinché ciò accada – ricorda Latouche – serve una “decolonizzazione dell’immaginario” a vantaggio di un nuovo modo di pensare e agire. Leggero ed efficiente appunto.

Pamela Pelatelli

 

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