VenTo: intervista a Paolo Pileri responsabile della pista ciclabile che collegherà Venezia a Torino

Anche in Italia pedalare si può. Se lo si vuole. Il Progetto VENTO, pista ciclabile lungo il fiume Po che da Torino arriva fino a Venezia, è molto più di una pista ciclabile: "è un progetto di sviluppo, una concreta e stabile occasione di occupazione e rilancio economico dei territori attraversati (e non solo loro)". Ne parliamo con il professor Paolo Pileri, docente di Tecnica e Pianificazione urbanistica presso il Politecnico di Milano e responsabile di questo progetto.

Anche in Italia pedalare si può. Se lo si vuole. Il Progetto VENTO, pista ciclabile lungo il fiume Po che da Torino arriva fino a Venezia, è molto più di una pista ciclabile: “è un progetto di sviluppo, una concreta e stabile occasione di occupazione e rilancio economico dei territori attraversati (e non solo loro)“.

Purtroppo, però, al bisogno di rilanciare l’economia con metodi che non impattano l’ambiente e possono valorizzare le risorse del Belpaese, si sovrappongono problemi che spaziano dai soliti conflitti campanilistici a un ritardo culturale che, a volte, sembra quasi irreparabile.

Ne parliamo con il professor Paolo Pileri, docente di Tecnica e Pianificazione urbanistica presso il Politecnico di Milano e responsabile di questo progetto.

Da cosa è nata l’idea del progetto VENTO?

Da un mix di cose. Non ultima l’esigenza di portare l’attenzione di Comuni, Regioni e Stato su registri nuovi e su proposte concrete e capaci di generare vere e proprie occasioni di occupazione ed economia in modo molto diverso dalle solite retoriche, tutte così assiepate attorno alla rendita, all’interesse di pochi e, soprattutto, al mattone facile. Quello appunto delle nuove costruzioni (poco si recupera, in Italia). I Comuni si dice che debbano “fare cassa”, ma secondo me devono invece far fare cassa, ovvero produrre occasioni perché il tessuto diffuso esistente sia in grado di lavorare. E oggi le occasioni da generare devono essere a impatto zero ed essere smart, nel senso di utilizzare quello che c’è e i patrimoni più importanti e fissi del nostro Paese: cultura e Paesaggio.

Quali differenze, limiti o vantaggi vede nel realizzare un’infrastruttura di questo tipo paragonando il contesto italiano a quello di altri Paesi del centro e nord Europa?

Molti sorridono e perfino ironizzano sulla proposta VENTO. Quando la presentiamo mi prendono per matto, o per un incaponito appassionato di bicicletta a cui viene dato troppo spazio per parlare. Io penso semplicemente che sbagliano a sottovalutare quanto la bicicletta può fare per l’occupazione, a partire proprio da quei territori dove fatichiamo ad immaginare una proposta che stia in piedi effettivamente e senza produrre costi pubblici. In altri Paesi europei hanno visto più lungo di noi già una ventina di anni fa.

In Germania sono state realizzate dorsali cicloturistiche come VENTO per 50.000 chilometri, ed oggi il solo cicloturismo regge un’economia di 4 miliardi di euro all’anno. Tutto il settore della bicicletta con in Germania 300.000 occupati e un’economia da 16 miliardi annui. E non ditemi che sono pazzo a pensare che in Italia si possa investire in queste opere, opere grandi come le abbiamo classificate noi di VENTO. Abbiamo tutto e di più: abbiamo paesaggio, itinerari, clima favorevole, ospitalità, beni culturali, storia, divertimenti. Oggi tra infrastrutture che ci portano nel futuro ci sono le piste ciclabili molto più delle autostrade. Non si sottovaluti questo settore e le sue potenzialità. con il costo di un paio di chilometri di autostrada si realizza una dorsale cicloturistica come VENTO: 679 km!.

E non pensiamo di trattare la bicicletta come un mezzo di serie B solo perché ci sembra un gioco. Non si pensi che i cicloturisti possano andare qua e là usando le strade esistenti e/o usate dalle auto. Possono farlo per brevissimi tratti, magari solo laddove ormai le auto non passano più e se passano vanno pianissimo. Per la bicicletta occorrono infrastrutture dedicate e appositamente progettate. Con la stessa perizia con cui si fanno le strade, ma con altre spese, e con produzione di lavoro ed economie che oggi ancora non capiamo. In Italia pedalare si può. E, lo dico alla politica, si deve poterlo permettere in totale sicurezza.

vento

Come pensa possano essere gli sviluppi futuri nel campo della pianificazione territoriale?

Domanda da premio? Sicuramente la pianificazione urbanistica deve scrollarsi di dosso una serie di difetti cronici, chiamiamoli così, che l’hanno gettata verso il basso riducendola ad un ruolo ancillare e, talvolta, asservito a poteri opachi e speculativi. Deve però lavorare molto sulla dimensione culturale. La città, il territorio, il paesaggio, l’ambiente sono patrimoni identitari troppo importanti per svenderli a logiche basse. L’urbanistica può indicare alcune strade per il futuro a certe condizioni, si intende. Ad esempio deve occuparsi, insieme ad altre discipline (e già qui c’è una novità), di generare quel senso di cura verso il nostro paesaggio che abbiamo perso rincorrendo falsi slogan che hanno ridotto il suolo ad una merce quand’è un bene comune e una risorsa ambientale unica. Per fare un esempio. L’urbanistica può smarcarsi dalle solite retoriche e con un colpo di reni provare a introdurre alcune riforme decisive (stop all’abuso degli oneri di urbanizzazione, gestione coordinata dei beni ambientali a partire dall’uso del suolo, stop al consumo di suolo, rigenerazione urbana, etc.) e dall’altra lavorare proprio a introdurre quei concetti culturali di matrice ambientale ancora largamente carenti e che invece determineranno gran parte della qualità del nostro futuro. Insomma se la congestione delle nostre città è un guaio, evidentemente la pianificazione territoriale ha avuto una responsabilità ed ora deve dismettere quelle azioni produttrici di congestione (come lo sprawl urbano) per generare soluzioni chiave. E così è per energia, cibo, biodiversità, etc. Qui sta il progetto di territorio che ci attende, secondo me. Sta nello spostare le energie culturali dell’urbanistica verso quelle applicazioni capaci non di produrre i soliti beni di consumo territoriali, se così posso definirli (la villetta, il capannone, l’autostrada, etc.), ma beni di servizio territoriali-ambientali capaci di mitigare/annullare gli effetti negativi sull’ambiente (la famosa messa in sicurezza del territorio, i beni culturali, i boschi, l’agricoltura… fino alle piste ciclabili, come dicevo sopra).

È troppo poco lo spazio qui per meglio argomentare questo passaggio, peraltro già intuito da Jorgen Randers nel suo libro 2052, che possiamo ora solo enunciare e porre a dibattito nel futuro immediato.

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