Gli animali selvatici sono in calo per colpa della deforestazione, dell'agricoltura non sostenibile e del commercio illegale di fauna
Gli animali selvatici che popolano la Terra sono in drastico calo per colpa della deforestazione, dell’agricoltura non sostenibile e del commercio illegale di fauna. A lanciare l’allarme è il WWF che ha pubblicato il nuovo Living Planet Report 2020.
Secondo l’analisi, dal 1970 a oggi le popolazioni globali di animali selvatici hanno subito un calo pari al 68%. In meno di 50 anni quindi abbiamo causato una riduzione pari a due terzi della fauna, soprattutto a causa della distruzione degli ecosistemi. Non si salva nessuno. Gli animali a rischio sono mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci.
“Il Living Planet Report 2020 sottolinea come la crescente distruzione della natura da parte dell’umanità stia avendo impatti catastrofici non solo sulle popolazioni di fauna selvatica, ma anche sulla salute umana e su tutti gli aspetti della nostra vita”, ha detto Marco Lambertini, Direttore Generale del WWF Internazionale. “Non possiamo ignorare questi segnali: il grave calo delle popolazioni di specie selvatiche ci indica che la natura si sta deteriorando e che il nostro pianeta ci lancia segnali di allarme rosso sul funzionamento dei sistemi naturali. Dai pesci degli oceani e dei fiumi alle api, fondamentali per la nostra produzione agricola, il declino della fauna selvatica influisce direttamente sulla nutrizione, sulla sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza di miliardi di persone”.
I risultati del Living Planet Report
Il dossier offre una panoramica completa dello stato dei sistemi naturali effettuando il monitoraggio della fauna selvatica globale. A realizzarlo sono stati oltre 125 esperti di tutto il mondo. La causa principale del drammatico declino delle popolazioni di specie terrestri, osservata nell’LPI, sono la perdita e il degrado degli habitat, inclusa la deforestazione e il modo in cui l’umanità produce cibo.
Utilizzando i dati di 4.392 specie e 20.811 popolazioni, l’Indice globale del pianeta vivente del 2020 ha mostrato dunque un calo medio del 68% nelle popolazioni monitorate:
“La variazione percentuale dell’indice riflette la variazione proporzionale media delle dimensioni della popolazione animale monitorata in 46 anni, non il numero di singoli animali persi” precisa il WWF.
Le specie in via di estinzione analizzate dal Living Planet Report sono il gorilla di pianura orientale, il cui numero nel Parco Nazionale Kahuzi-Biega (Repubblica Democratica del Congo), ha visto un calo stimato dell’87% tra il 1994 e il 2015, soprattutto a causa della caccia illegale, e il pappagallo cenerino in Ghana sud-occidentale, il cui numero è sceso addirittura del 99% tra il 1992 e il 2014 a causa delle trappole usate per il commercio di uccelli selvatici e la perdita di habitat.
A rischio anche i pesci
Il report, che ha monitorato quasi 21.000 popolazioni di oltre 4.000 specie di vertebrati tra il 1970 e il 2016, ha mostrato anche che le popolazioni di fauna selvatica che si trovano negli habitat di acqua dolce hanno subito un calo dell’84%, il calo medio della popolazione più netto tra tutti i bioma, equivalente al 4 per cento all’anno dal 1970.
In altre parole, circa l’85% delle zone umide della terra è già perduto e le specie di acqua dolce sono più a rischio rispetto alle specie forestali o marine. Tra queste, degna di nota è la popolazione riproduttiva dello storione cinese nel fiume Yangtze in Cina, diminuita del 97% tra il 1982 e il 2015 a causa dello sbarramento del corso d’acqua.
“Il Living Planet Index è una delle misurazioni più complete della biodiversità globale”, ha affermato il dott. Andrew Terry, direttore conservazione della Zoological Society of London. “Un calo medio del 68% negli ultimi 50 anni è catastrofico e una chiara prova del danno che l’attività umana sta arrecando al mondo naturale. Se non cambia nulla, le popolazioni continueranno senza dubbio a diminuire, portando la fauna selvatica all’estinzione e minacciando l’integrità degli ecosistemi da cui tutti dipendiamo. Ma sappiamo anche che agendo sulla attività di conservazione delle specie possiamo allontanarci da questo baratro. Servono impegno, investimenti e competenza per invertire queste tendenze”.
Invertire la rotta è ancora possibile
A fianco delle statistiche allarmanti, ci sono però esempi dei casi di successo che dimostrano le possibilità offerte dalle azioni di conservazione. Ne è un esempio quello delle popolazioni di alcune specie come la tartaruga caretta nel Simangaliso Wetland Park, Sud Africa, lo squalo pinna nera del reef (Carcharhinus melanopterus) nell’Ashmore Reef in Australia occidentale o il castoro europeo (Castor fiber) in Polonia, o di quelle di tigri e panda, aumentate nel loro numero globale (a parte alcune popolazioni locali a forte rischio).
“Questa ricerca può aiutarci a garantire un New Deal per la natura e le persone che sarà la chiave per la sopravvivenza a lungo termine delle popolazioni di fauna selvatica, piante e insetti e dell’insieme della natura, inclusa l’umanità. Un New Deal non è mai stato così necessario”
prosegue il WWF che ha lanciato la petizione Panda.org/pandemics in cui invita tutti a chiedere ai leader mondiali di implementare programmi politici e piani d’azione per un approccio “One Health” che garantisca tutto lo sforzo possibile per proteggerci da future pandemie. E ciò passa anche dalla tutela della biodiversità.
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Fonti di riferimento: WWF
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