Mantenuti a lungo segreti (e cari ai nativi), gli orsi spirito del Canada sono ancora più rari di quanto si pensasse

Uno studio ha scoperto che gli orsi spirito che vivono in Canada sono ancora più rari di quanto ipotizzato finora

Il loro nome indica già che si tratta di una figura sfuggente, al limite del mitologico, ma esistono davvero. Si tratta degli orsi spirito, creature che vivono nella Columbia Britannica, in Canada. Di recente uno studio ha scoperto che tali animali sono ancora più rari di quanto ipotizzato finora.

L’orso kermode (Ursus americanus kermodei) vive nelle terre popolate dagli indigeni delle cosiddette Prime Nazioni, le First Nations. Dal 19° secolo gli indigeni stanno attuando delle strategie per metterlo al riparo dal predatore più pericoloso, l’uomo. L’orso spirito infatti è ambito dai commercianti di pellicce per via della colorazione bianca del suo manto.

Nessuna parentela con l’orso bianco. Si tratta infatti di una sottospecie di orso nero americano caratterizzato dal fatto che circa un decimo della popolazione presenta la pelliccia bianca o crema. Non si tratta di albinismo, ma di un fattore genetico ossia della presenza dell’allele recessivo, che nel loro caso si manifesta.

Per via del loro aspetto simile ad un fantasma, gli orsi spirito hanno avuto un ruolo di primo piano nella tradizione dei Nativi canadesi e americani. Come racconta un’antica leggenda, il Wee’get (che significa “corvo”, noto come il creatore del mondo) ha trasformato in bianco ogni decimo orso nero per ricordare alle persone le condizioni incontaminate dell’era glaciale.

Conosciuti come moksgm’ol , che significa “orsi bianchi”, gli orsi spirito sono sacri per gli indigeni che vivono nella Great Bear Rainforest, nella Columbia Britannica centrale e settentrionale. Nonostante il crescente interesse per questi splendidi animali, ci sono poche informazioni a disposizione ma un recente studio condotto da alcuni gruppi delle First Nations in collaborazione coi ricercatori dell’Università di Vittoria ha rivelato che l’orso spirito è più raro e più vulnerabile di quanto si pensasse in precedenza.

I ricercatori hanno passato 8 anni a setacciare 18mila kmq di foresta pluviale. Fino ad allora si pensava che sulla Terra vivessero da 100 a 500 esemplari ma il nuovo studio ha scoperto che il loro gene tipico è fino al 50% più raro di quanto si pensasse. Ma c’è di più: circa la metà delle zone in cui essi vivono non rientra nelle aree protette della Columbia Britannica, rendendo i loro habitat vulnerabili ai progetti di disboscamento, di estrazione mineraria e perforazione.

Gli orsi aiutano ad arricchire la foresta diffondendo i nutrienti dei salmoni

Oltre al loro significato culturale e genetico, gli orsi spirito, insieme alle loro controparti nere, arricchiscono la foresta diffondendo nutrienti marini attraverso il trasporto del salmone dai torrenti alla foresta, dove li mangiano lontano dai grizzly più aggressivi. Il salmone fornisce circa l’80% dell’azoto agli alberi, un nutriente essenziale per la sopravvivenza della foresta pluviale. Sebbene questo vantaggio non sia limitato agli orsi spirito, la ricerca condotta dagli scienziati dell’Università di Victoria ha scoperto che proprio grazie al loro colore bianco, essi hanno un punto a loro favore rispetto agli orsi neri: quando catturano il salmone si mimetizzano nella luce del giorno.

Purtroppo, i cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio anche i salmoni e di conseguenza l’approvvigionamento alimentare degli orsi. Le popolazioni di salmone del Pacifico della Columbia Britannica sono diminuite dell’80% dagli anni ’90 e secondo gli autori dello studio il 2020 la loro presenza è stata ridotta al minimo.

Come fare dunque a proteggere gli orsi? Per gli autori dello studio, a tutelarli devono essere coloro che li conoscono più da vicino e che da oltre un secolo convivono con tali animali: gli indigeni delle Prime Nazioni. Essi chiedono infatti l’istituzione di una nuova Area protetta indigena che comprende la foresta pluviale in cui gli orsi vivono.

Fonti di riferimento: The Guardian, Besjournals

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