Non è mai troppo tardi per ricredersi. Esattamente come Caroline Dennett ha rassegnato le sue dimissioni da Shell, così questa primatologa americana ha detto addio alle sperimentazioni sugli animali. Un passo indietro è sempre possibile, basta volerlo
Capelli biondi raccolti in una coda, occhi chiari e fare deciso: in quattro e quattr’otto ha lasciato il suo lavoro di ricercatrice di laboratorio e lo ha fatto esattamente nel momento in cui ha iniziato a vedere quanto le scimmie siamo simili a noi. E quanto soffrissero.
Lei è Lisa Jones-Engel, primatologa e scienziata che ha studiato l’interfaccia uomo-primate per ben 35 anni. La sua carriera scientifica ha attraversato i laboratori di ricerca e le aule universitarie.
Ha lavorato al Laboratorio di Medicina e Chirurgia Sperimentale sui primati della NY, e poi al centro di ricerca sui primati dell’Università di Washington, uno degli otto centri nazionali per i primati creati negli anni ‘60 (è il Washington National Primate Research Center – WaNPRC – che per 60 anni ha sfruttato le scimmie in esperimenti traumatici, dolorosi e irrilevanti supportati dall’Università di Washington).
Ha trascorso decenni sul campo, intrappolando e campionando macachi e altri primati in tutta l’Asia con sovvenzioni prestigiose e pubblicando le sue ricerche sulle migliori riviste. Ma ora ecco che indossa una vistosa maschera su un marciapiede a Seattle e protesta, finalmente libera.
Alla fine del 2019, Lisa ha compiuto un passo drastico e irrevocabile: ha detto sì a un lavoro presso People for the Ethical Treatment of Animals, la Peta, come consulente scientifico senior, una mossa che non avrebbe mai previsto quando ha iniziato la sua carriera.
La svolta di Lisa
Solo nel 2019, ultimo anno per cui la ricerca è disponibile, più di 108mila scimmie sono state detenute e utilizzate in esperimenti nei laboratori statunitensi, insieme a quasi 200mila porcellini d’India, 58mila cani, 18mila gatti e milioni e milioni di ratti (mentre ci sarebbero da constatare anche le sperimentazioni sugli insetti o su altri invertebrati).
Per più di 30 anni, Lisa Jones-Engel ha seguito i macachi, costruendo un database di campioni di sangue, feci e altri campioni di oltre 1.000 singole scimmie. Lunghi anni di ricerca in cui ha sempre deriso gli attivisti per i diritti degli animali.
Per decenni ho studiato come le malattie si muovono tra e colpiscono le popolazioni di scimmie e umane. Nel 2002, il mio lavoro mi ha portato al WaNPRC, dove ho lavorato come scienziato dei primati per 14 anni e poi ho prestato servizio per quasi due anni nell’Institutional Animal Care and Use Committee (IACUC) dell’UW, il comitato incaricato di garantire il rispetto del benessere minimo degli animali standard nei laboratori universitari.
In entrambi questi ruoli, ho avuto un posto in prima fila: ho scoperto che il centro è un’istituzione distrutta che fallisce nelle sue funzioni più elementari. Non ha una bussola morale, è gestito in modo inetto e perpetua inconsciamente l’inutilità della sperimentazione sui primati in un momento in cui sono disponibili alternative alla sperimentazione animale e in cui la necessità di una scienza etica e affidabile non è mai stata così grande.
Il suo pensiero ha cominciato così a cambiare nel tempo, soprattutto dopo essersi convertita al giudaismo nel 1994, quando era incinta di cinque mesi di due gemelle.
Una delle cose che faccio come ebrea è costruire comunità, riunire persone che ne hanno bisogno, che lo sappiano o meno. Quando vedo le scimmie nelle singole gabbie, vedo che hai portato via la cosa più importante per un macaco. Hai portato via la loro capacità di avere una relazione.
Poi, 10 anni fa, mentre era in auto a Zorargonj, in Bangladesh, alla ricerca di scimmie, vede un uomo che portava una scimmia al guinzaglio e chiese al suo collega di accostare. Aprì lo sportello del furgone, la scimmia si precipitò dentro e le afferrò le guance. Lei pensò di farsi del male, ma non fu così. La scimmia avvicinò il naso e la bocca a quelli di Jones-Engel e per i successivi 30 secondi rimasero a guardarsi occhi negli occhi. Fu in quell’esatto momento che Lisa capì che non avrebbe potuto causare a quella scimmia nemmeno un secondo di dolore o di disagio.
Due mesi dopo, Jones-Engel stava intrappolando scimmie in un villaggio del Bangladesh. Aveva catturato una dozzina di animali urlanti, tra cui una madre e il suo piccolo. Li aveva anestetizzati, prelevato campioni, li aveva lasciati svegliare e li aveva rilasciati. Le scimmie sono fuggite, tranne il bambino, che era ancora aggrappato alla rete. Sua madre, rendendosi conto che se n’era andato, si voltò e corse di nuovo nella trappola per prenderlo. Guardandola rimettersi in pericolo per il bene del suo bambino, Jones-Engel ha avuto una rivelazione.
Come ogni madre, era disposta a fare tutto ciò che doveva fare per avere il suo bambino – ricorda. Come madre, sapevo quanto le sarebbe costato. E sono semplicemente andata via. Non posso più sperimentare su di loro perché sono così come noi, racconta.
Questa osservazione – sono proprio come noi – è in qualche modo il paradosso al centro del dibattito sui primati nella ricerca. Lo psicologo John Gluck, professore di ricerca al Kennedy Institute of Ethics della Georgetown University, articola questo paradosso nel suo libro Voracious Science & Vulnerable Animals: quando i ricercatori vogliono estrapolare i loro risultati sugli animali agli esseri umani, enfatizzano le somiglianze tra animali e umani, lui spiega. Ma quando vogliono giustificare ricerche che causano dolore, paura o morte – protocolli che non verrebbero mai approvati per gli esseri umani – sottolineano le differenze.
In altre parole, possiamo imparare da loro perché sono proprio come noi; possiamo sperimentare su di loro perché non sono come noi.
Lisa Jones-Engel era già alle prese con la sua coscienza e con quel paradosso quando ha letto il libro di Gluck nel 2017 ed è volata via per incontrarlo. Ma intanto prende un posto nell’Institutional Animal Care and Use Committee (IACUC) dell’Università di Washington, dove trascorre i due anni successivi cercando di districarsi nei mondi opposti, tra ricerca e la cura degli animali.
Le sue richieste di maggiori informazioni su un protocollo o di revisione del progetto di uno studio venivano regolarmente respinte. Viene bollata come una piantagrane, causando tensioni tra lei e la presidente del comitato e alla fine si dimette.
C’è sollievo nel lasciarsi andare – dice – nello stare dalla parte dei diritti degli animali, nell’usare il tuo background scientifico e le tue conoscenze per quello che vedi come uno scopo più alto.
Da allora si è fatta una promessa: avrebbe chiuso i sette centri per primati rimasti nel Paese entro i prossimi 10 anni. E niente può più fermarla.
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Fonte: PETA
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