Granchi e gamberi sono “sessualmente” attratti da particelle inquinanti rilasciate dai rifiuti di plastica

I paguri vengono attirati dall'oleamide, un additivo utilizzato nella lavorazione della plastica e che indica loro la presenza di cibo.

In un recente studio, i paguri hanno mostrato di essere attratti da un additivo presente nei rifiuti di plastica. Si tratta dell’oleamide, un composto organico naturale usato come additivo nella lavorazione della plastica che, in alcuni animali marini ha effetto stimolante.

Quando la plastica finisce negli oceani, lentamente si degrada rilasciando innumerevoli sostanze in acqua, inclusa l’oleamide, noto feromone per alcune specie tra cui granchi, gamberi e gamberetti.

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Lo studio, portato avanti da un team dell’Università di Hull, ha scoperto che l’oleamide nei paguri causa un aumento della respirazione, indice di attrazione ed eccitazione. In pratica, l’oleamide funziona come un richiamo per l’accoppiamento o per la ricerca di cibo.

Come mai i paguri trovano attraente questo composto? Secondo i ricercatori, alla base di questo comportamento concorrono diverse cause, tra cui l’acidificazione delle acque. I cambiamenti di pH danneggiano l’olfatto degli animali marini e, se la capacità olfattiva è compromessa, è facile per loro confondere una sostanza con un altra.

La struttura dell’oleamide somiglia a quella dell’acido oleico. La presenza di questa sostanza potrebbe dunque indicare ai paguri la presenza di cibo, traendoli in inganno. Si tratta di un fenomeno che si verifica anche con altre sostanze rilasciate dalla plastica e per i paguri rappresenta un pericolo, poiché granchi, gamberi e altre specie potrebbero ingerire più facilmente rifiuti di plastica per errore.

La presenza di oleamide e di altri composti che attraggono gli animali marini possono inoltre interferire con la riproduzione, compromettendola.

Secondo i ricercatori, l’aumento dei rifiuti di plastica, unito all’acidificazione delle acque e all’aumento delle temperature sta avendo un impatto drammatico sugli animali marini e i risultati di questo nuovo studio non sono che l’ennesima conferma.

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Fonti di riferimento: University of Hull

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