Eradicare specie reintrodotte in altri habitat perché alloctone non è l'approccio giusto per salvaguardare l'ecosistema. Per i ricercatori andrebbero valutati altri criteri, prima ancora della categoria di appartenenza di un determinato esemplare
Le circostanze odierne impongono misure drastiche per provare a salvaguardare gli ecosistemi, la fauna e la flora mondiale dalle minacce che mettono a dura prova la sopravvivenza della biodiversità.
Pensiamo alla prima riproduzione tramite fecondazione assistita per i rinoceronti bianchi per salvarli dall’estinzione o alle specie aliene, da eradicare perché in competizione con quelle autoctone.
Ma l’eliminazione di animali cosiddetti alieni o alloctoni che non appartengono al territorio è davvero una valida strategia di conservazione della natura? Apparentemente no. A rivelarlo un nuovo studio scientifico pubblicato sulla rivista Science.
Un team di ricercatori dell’Università di Aarhus, in Danimarca, e di Oxford, Regno Unito, ha esaminato 221 pubblicazioni sulla megafauna per capire se i grandi mammiferi erbivori alloctoni avessero effetti negativi sull’abbondanza e sulla diversità della flora locale.
I risultati hanno sorpreso gli studiosi perché non è stata trovata alcuna prova significativa a sostegno della tesi che gli erbivori introdotti in un’area a loro estranea abbiano un impatto diverso da quello degli erbivori nativi.
L’indagine evidenzia, tuttavia, che gli erbivori di una certa stazza influenzerebbero il tipo di vegetazione. Ciò dipende dalle loro dimensioni e dalla loro dieta. Animali come i bufali, ad esempio, hanno una alimentazione meno selettiva di altre specie e nutrendosi di più piante permettono una maggiore varietà vegetale.
La ricerca suggerisce, perciò, che tutte le specie andrebbero studiate allo stesso modo basandosi sul loro ruolo ambientale invece che etichettarle come “alloctone” e procedere automaticamente all’eliminazione.
I nostri risultati suggeriscono che è tempo di iniziare a utilizzare gli stessi standard per comprendere gli effetti degli organismi nativi e introdotti allo stesso modo e di considerare seriamente le implicazioni dei programmi di eradicazione e abbattimento basati su nozioni culturali di “appartenenza”. Invece, gli animali introdotti dovrebbero essere studiati allo stesso modo di qualsiasi fauna selvatica autoctona, attraverso la lente dell’ecologia funzionale” ha dichiarato Erick Lundgren, autore principale dello studio.
I dati raccolti sono di fondamentale importanza in quanto possono servire ai servizi faunistici per monitorare la salute dell’ecosistema, a maggior ragione al giorno d’oggi in cui molte specie erbivore sono scomparse.
Nel nostro Parse ha fatto molto discutere il caso dei mufloni dell’Isola del Giglio, eradicati poiché ritenuti una specie invasiva e un pericolo per la natura. Per parte della comunità scientifica, tuttavia, questa specie era portatore di antichi tratti andati persi nelle popolazioni sarde.
In alcuni Paesi del mondo, come nel Regno Unito, animali estinti sono stati “sostituiti” introducendo altre specie capaci di ristabilire le funzioni di quell’ecosistema in un approccio adattativo. Il dibattito sulle conseguenze è comunque molto acceso.
Dovremmo studiare il ruolo ecologico che questi animali, nativi o meno, svolgono negli ecosistemi piuttosto che giudicarli in base alla loro appartenenza” osservano dunque i ricercatori” concludono gli studiosi.
Invece che sterminare indiscriminatamente migliaia di animali ritenuti invasivi al mondo, andrebbero valutati i loro tratti funzionali e la migliore soluzione per la specie e per la natura.
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Fonte: Science
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