Come le multinazionali del tabacco stanno sfruttando i braccianti nei campi italiani

Il tabacco italiano viene dallo sfruttamento dei migranti, costretti a lavorare molte ore al giorno, per pochi euro e in scarse condizioni di sicurezza. Da un’inchiesta di The Guardian durata tre anni e è considerata la prima in Europa ad esaminare l’intera catena di approvvigionamento, emerge un quadro disumano, che coinvolge colossi come Philip Morris, British American Tobacco e Imperial Brands

Il tabacco utilizzato dalle multinazionali proviene dallo sfruttamento dei braccianti, per lo più migranti, costretti a lavorare molte ore al giorno, per pochi euro e in scarse condizioni di sicurezza. Da un’inchiesta di The Guardian durata tre anni, la prima in Europa ad esaminare l’intera catena di approvvigionamento, emerge un quadro disumano, che coinvolge colossi come Philip Morris, British American Tobacco e Imperial Brands.

Contratti illegali (ove presenti), salari ridicoli, ore di lavoro inaccettabili e sicurezza quasi inesistente: queste le accuse ai big del tabacco, che sfrutterebbero i migranti nei campi, prevalentemente in Campania. Ma le aziende negano.

I braccianti, compresi i bambini, hanno dichiarato di essere stati costretti a lavorare fino a 12 ore al giorno senza contratti, nè sufficienti attrezzature sanitarie e di sicurezza in Campania, una regione che produce più di un terzo del tabacco italiano. Alcuni lavoratori hanno detto che sono stati pagati circa tre euro l’ora.

Il mercato italiano del tabacco (l’Italia ne è principale produttore all’interno dell’UE), nonostante i ripetuti e confermati allarmi sui danni alla salute, non accenna a diminuire, anzi. In Italia si stima che siano attribuibili al fumo di tabacco dalle 70.000 alle 83.000 morti l’anno, con oltre il 25% di questi decessi compreso tra i 35 ed i 65 anni di età, con pericoloso aumento di consumo tra gli adolescenti.

A questi numeri, che fanno paura, si aggiunge lo sfruttamento minorile, con accuse infamanti che travolgono Philip Morris, British American Tobacco e Imperial Brands, e i nostri campi. Il mercato infatti è dominato queste tre multinazionali, che acquistano dai produttori locali. In particolare i colossi hanno acquistato tre quinti del tabacco italiano nel 2017 (Philip Morris, da sola, 21.000 tonnellate delle 50.000  raccolte quell’anno). E i costi che pagano i lavoratori sembrano molto alti.

Didier, nato e cresciuto in Costa d’Avorio, è arrivato in Italia via Libia. Di recente ha compiuto 18 anni, ma ne aveva 17 quando, la scorsa primavera, un coltivatore di tabacco a Capua Vetere, vicino alla città di Caserta, gli offrì lavoro nei suoi campi. “Mi sono svegliato alle 4 del mattino. Abbiamo iniziato alle 6 del mattino – dichiara a The Guardian – Il lavoro è stato estenuante. Faceva molto caldo all’interno della serra e non avevamo contratti”.

Alex, del Ghana, un altro minore che lavorava nella stessa zona, riferisce di essere stato costretto a lavorare da 10 a 12 ore al giorno. “Se sei stanco o no, devi lavorare, altrimenti perdi il lavoro”. Tutti lavoratori intervistati lamentano di dover lavorare senza sosta fino all’ora di pranzo.

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E in condizioni di sicurezza molto precarie: senza  guanti o indumenti da lavoro per proteggersi dalla nicotina contenuta nelle foglie o dai pesticidi, riferendo sintomi di avvelenamento (“una malattia come febbre, come la malaria, o mal di testa”). L’umidità su una foglia di tabacco da rugiada o pioggia può contenere infatti tanta nicotina quanto quella sei sigarette e il contatto diretto può portare all’avvelenamento.

“Non riuscivo a mettere le mani in acqua per fare una doccia perché le mie mani erano tagliate” (Sekou).

“Ho avuto dolore in tutto il corpo, soprattutto sulle mie mani. Ho dovuto prendere antidolorifici ogni giorno” (Olivier).

Per 20, massimo 30 euro al giorno, contro i 42 minimi previsti dai contratti nazionali.

“Purtroppo, la realtà delle condizioni di lavoro nel settore agricolo della provincia di Caserta, compresa l’industria del tabacco, è caratterizzata da un profondo sfruttamento del lavoro, bassi salari, contratti illegali e una presenza impressionante del caporalato, compresa l’estorsione e il ricatto dei lavoratori” spiega Tammaro Della Corte, leader del sindacato generale dei lavoratori italiani a Caserta”.

“Parliamo con migliaia di lavoratori che lavorano in condizioni estreme, la maggior parte dei quali sono immigrati dall’Europa orientale, dall’Africa settentrionale e dall’Africa subsahariana. Gran parte dell’intera filiera del settore del tabacco è caratterizzata da condizioni di lavoro estreme e allarmanti”.

Tutte le multinazionali negano le accuse, affermando di acquistare da fornitori che operano secondo un rigido codice di condotta per assicurare un trattamento equo dei lavoratori. Philip Morris riferisce di non aver riscontrato alcun abuso e ricorda di aver siglato un accordo nel 2017 con l’UN’s International Organization for Migration per assumere 20 migranti come tirocinanti all’interno delle aziende produttrici di tabacco della Campania, per “sostenere la loro uscita da situazioni di serio sfruttamento” (i tirocinanti, per 6 mesi, ricevono uno stipendio mensile di 600 euro). American Tobacco e Imperial Brands, invece, si sono dimostrate disponibili per indagini a riguardo.

La piaga del caporalato (pratica illegale con la quale il “caporale” recluta persone per farle lavorare in nero) non coinvolge però solo l’industria del tabacco. Da uno studio condotto da The European House-Ambrosetti (solo per citare un esempio), risultano infatti oltre 400 mila lavoratori agricoli che in Italia vengono sfruttati ogni anno, per una paga pari a circa 2,50 euro all’ora. I lavoratori sfruttati dal caporalato, che nell’80% dei casi sono stranieri, spesso arrivano in Italia in cerca di fortuna.

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Al di là del tabacco, che non dovremmo comunque consumare per proteggere la nostra salute, è giusto fermarsi a riflettere sul costo dei prodotti che troviamo sui banchi dei negozi. In cerca di sconti, soprattutto, chiediamoci chi li paga prima di acquistare.

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*I nomi dei migranti sono di fantasia 

Foto: Alessio Mamo/The Guardian

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