I medici italiani lanciano l’allarme sui rischi degli allevamenti intensivi, il loro impatto è terribile

L’associazione ISDE Italia analizza in un nuovo paper l’impatto sulla salute umana e sull’ambiente degli allevamenti intensivi e biologici

L’associazione ISDE Italia analizza in un nuovo paper l’impatto sulla salute umana e sull’ambiente degli allevamenti intensivi e biologici

Quella condotta dall’Associazione Medici per l’Ambiente – ISDE non è certamente la prima indagine a sottolineare come gli allevamenti intensivi di animali destinati all’alimentazione umana generino innumerevoli danni all’ambiente: deforestazione, perdita di biodiversità, resistenza agli antibiotici, zoonosi (ovvero trasmissione di malattie dagli animali all’uomo). Il report, tuttavia, punta il dito anche contro la definizione di ‘biologico’ – un termine abusato dietro cui si nascondono molto spesso violazioni ambientali ed etiche di cui i consumatori sono all’oscuro.

Oggi una nuova consapevolezza globale pone alla coscienza del consumatore anche la ‘questione animale’ in merito al loro benessere e alla copertura dei fabbisogni alimentari nel mondo – si legge nel report. – La nostra dieta deve cambiare per diventare più sana, per mettere fine alla fame nel mondo, per salvare il Pianeta e per dare dignità e benessere al mondo animale. In questo panorama, la scelta produttiva del biologico anche in zootecnia, è un grande progetto sostenuto e voluto dalla maggioranza dei cittadini europei, che vogliono un futuro sostenibile e più giusto. […] Tuttavia il biologico non deve essere greenwashing, ma deve diventare un cambio di paradigma affinché niente sia più come prima.

Che cos’è un allevamento intensivo?

Gli allevamenti intensivi nascono nella seconda metà del ‘900 per far fronte all’aumento di popolazione e al consumo di proteine di origine animale (latte e derivati, carne, uova, pesce) seguendo la stessa logica produttivistica e mercantile che caratterizzava la trasformazione dell’agricoltura tradizionale in agricoltura “industriale”: come l’attività agricola iniziò a vedere un utilizzo sempre maggiore di tecnologie meccaniche, genetiche e soprattutto chimiche (con impiego sempre più massiccio di fertilizzanti e pesticidi), una simile trasformazione inizio a vedersi anche nell’allevamento.

Anche se manca ancora una normativa chiara sulla definizione degli allevamenti intensivi, alcune loro caratteristiche comuni riguardano l’allevamento di un gran numero di animali in spazi ristretti, in condizioni per loro innaturali, di precario equilibrio per la loro salute con conseguenze di alterazioni ambientali e di aumentato rischio per la salute umana. Oltre a questo, gli allevamenti intensivi vedono pratiche allevatoriali non solo dannose per il benessere animale, ma anche per la salute dell’uomo e per la tutela ambientale – come per esempio:

  • La macinazione delle carcasse di pecore morte per scrapie (HIV), date poi come mangime alle vacche da latte, che a loro volta hanno trasmesso il morbo CDJ all’uomo che si è nutrito della loro carne;
  • La produzione dei vitelli a carne bianca, ai quali viene impedito il normale funzionamento della doccia esofagea al fine di alimentarli a latte fino al peso di 2 quintali, in condizioni di anemia (affinché la carne si mantenga appunto bianca), in posta fissa, legati alla catena; si pensi che la carne di questi vitelli viene raccomandata nell’alimentazione dei bambini;
  • L’allevamento di ovini (polli, tacchini e faraone) in capannoni industriali con concentrazioni fino a mezzo milione di capi;
  • La creazione di linee genetiche “artificiali” con il solo scopo di deformare gli animali (maiali, polli, vacche, bovini da carne, etc.) nelle parti commestibili interessate alla maggiore conversione e sviluppo.
  • L’allontanamento dei vitelli dalle madri dal primo giorno per metterli in gabbia, e poter mungere la madre sfruttandone tutta la duratura della montata lattea.

(Leggi anche: L’orrore che non ti aspetti negli allevamenti intensivi di pesce)

Abbiamo davvero bisogno della carne?

Sapere che consumare una fetta di formaggio o un hamburger provoca tanta sofferenza a dei poveri animali e genera al contempo importanti rischi per la nostra salute fa nascere questo interrogativo. In realtà, non c’è bisogno di uccidere gli animali per alimentarsi in modo equilibrato, ma si può scegliere di seguire una dieta sostenibile. Secondo la FAO:

Le diete sostenibili sono diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono accettabili culturalmente, economicamente eque ed accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano le risorse naturali e umane.

E il ‘bio’?

L’allevamento biologico si inserisce come una delle strategie atte a rispettare l’ambiente (in termini di acqua, terra, aria, animali), dopo avere considerato invece l’allevamento nel secolo passato, luogo di profitto estremo, con i risultati ambientali evidenti che sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, secondo quanto si legge nel report, il termine ‘biologico’ in relazione ai processi di allevamento non ha senso di esistere, se non a fini commerciali: molti consumatori, infatti, mettono in opposizione i prodotti provenienti dagli allevamenti intensivi tradizionali con quelli degli allevamenti ‘bio’, preferendo i secondi con la convinzione di fare una scelta più salutare. E invece mancano ancora una regolamentazione comunitaria che definisca i limiti e gli obblighi del ‘biologico’ e degli standard qualitativi ed etici minimi da rispettare.

Riteniamo che la regolamentazione sanitaria nell’allevamento biologico, come impostata fino ad oggi, e nell’applicazione futura non possa essere validamente realizzata né a tutela dell’ambiente, né del benessere animale, né della salute dell’uomo, quando si esuli dal suo percorso in fase autorizzativa e dalla presenza, in fase di controllo, di un pubblico ufficiale privo di conflitti di interessi, con un ruolo sanitario a tutela del consumatore e non agricolo, a tutela del produttore, con competenze sanitarie per operare in scienza e coscienza, sia esso un veterinario di una azienda sanitaria locale o un tecnico ARPA.

QUI è possibile leggere il report completo. 

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Fonte: ISDE Italia

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