Sei decenni sono passati, e un processo, e ci sarà sempre e ancora il rimorso che, se si fosse dato ascolto alla geologia, il disastro del Vajont non sarebbe accaduto
La fine cominciò in un’ora tarda, passate le dieci e mezzo di sera. Il 9 ottobre del 1963. Più di 250milioni di metri cubi di roccia precipitarono nel bacino artificiale creato dalla diga del Vajont, provocando un’onda di oltre 200 metri. Più di 1900 i morti, decine le persone che non si sono mai più ritrovate, cinque i paesi inghiottiti nel nulla.
61 ani fa accadde, così, quello che è passato alla storia come il disastro del Vajont. Ma cosa successe quella sera?
Leggi anche: Disastro del Vajont: 60 anni fa la terribile vendetta della montagna sull’uomo
Quelle che vennero intese allora come “circostanze sfortunate” fecero sì che una quantità enorme di roccia si spingesse alla velocità di circa 108 km orari, finendo nelle acque del bacino idroelettrico artificiale del Vajont, che conteneva circa 115 milioni di metri cubi di acqua al momento del disastro.
L’acqua della diga stessa risalì il versante opposto distruggendo tutti i centri abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, riversandosi poi nella valle del Piave e trascinando nel fango il paese di Longarone e altri comuni limitrofi.
Un disastro che si poteva evitare
Della tragedia del Vajont sono molti ancora i punti da chiarire ma su tutto ormai, a più di mezzo secolo, è chiaro che c’entra eccome la superficialità dell’uomo.
L’evento, infatti, secondo il parere di molti esperti, si poteva prevedere ed evitare. Secondo alcuni studi, il disastro del Vajont, uno dei peggiori del Novecento, avrebbe una storia antica alla quale non si è stati attenti. Si trattava di fatto di una paleofrana, ossia di una frana preistorica staccatasi migliaia di anni prima, con un volume enorme che si era accumulato in valle chiudendo il corso fluviale del torrente Vajont.
La frana, attiva molte migliaia di anni fa, era ormai camuffata dalla vegetazione e la sua scoperta fu fatta dal geologo Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga del Vajont, Carlo Semenza. Il geologo aveva effettuato una serie di rilevamenti e osservazioni delle rocce sul versante nord del Monte Toc, la montagna situata in sinistra idrografica del torrente Vajont e arrivò a ipotizzare la presenza proprio di una paleofrana di circa 50 milioni di metri cubi.
La conclusione di Semenza era supportata anche tantissimi dati raccolti sul campo e dall’osservazione della geomorfologia: le rocce erano fratturate, con direzione degli strati “anomale” e non coincidenti con il resto del versante. Ma l’ipotesi della paleofrana formulata da Semenza non venne presa in considerazione dai geologi coinvolti nella realizzazione della diga. Ed il resto è storia.
Subito dopo il disastro fu avviata una commissione d’inchiesta ministeriale e l’iter processuale per determinare cause e colpevoli fu lunghissimo. Nel 1968 il giudice istruttore di Belluno depositò una sentenza contro il direttore costruzioni della SADE Biadene, l’unico a finire in carcere. Il processo di primo grado a L’Aquila si concluse nel 1969 con tre condanne a sei anni di reclusione di cui due condonati. L’anno dopo si tenne il processo d’appello e furono condannati di nuovo Biadene e un’altra persona. La Cassazione confermò la condanna nel ’71 e solo Biadene rimase in carcere per due anni.
Negli anni ’70 iniziò in sede civile anche la richiesta per il risarcimento danni. I familiari delle vittime hanno dovuto aspettare il 1997 per iniziare a ottenere giustizia. Nel 2000 lo Stato, insieme a Enel e Montedison, ha pagato 77 miliardi di lire per i danni morali e materiali alle popolazioni colpite.
Non vuoi perdere le nostre notizie ?
- Iscriviti ai nostri canali Whatsapp e Telegram.
- Siamo anche su Google News attiva la stella per inserirci tra le fonti preferite
Leggi anche: