Tra gli anni ‘50 e ‘90, 200mila fusti pieni di scorie radioattive furono gettati dagli Stati europei negli abissi dell’Atlantico nord-orientale. Ora una missione scientifica verificherà le loro condizioni e le conseguenze di questi scarichi sugli ecosistemi
Plastica, metalli pesanti, fertilizzanti e altri pesticidi non sono gli unici a inquinare i nostri mari. Anche migliaia di tonnellate di scorie radioattive giacciono sui loro fondali, disastrosa conseguenza delle nostre attività nucleari civili e militari. Che impatto avranno sugli ecosistemi?
CNRS Le Journal dedica a queste scorie nucleari l’inchiesta “Atlantique: sur la piste des fûts radioactifs” e cerca di comprendere a cosa i nostri mari vanno incontro.
Il nucleare ha generato scorie fin dall’inizio e fin dall’inizio è sorto il problema della loro gestione – dice Patrick Chardon, specialista degli effetti della radioattività sull’ambiente presso il Physics Laboratory 1 a Clermont-Ferrand. Le pianure abissali, ritenute prive di vita, apparivano come un possibile luogo di evacuazione. Situate a diverse centinaia di chilometri dalla costa e a più di 4mila metri di profondità, erano lontane dall’uomo.
E così, solo dopo tanto tempo si è compreso che l’abisso non è il deserto senza vita che si pensava. Che impatto avranno allora sugli ecosistemi quelle scorie radioattive? Due campagne oceanografiche francesi programmate per gli anni 2023-2024 cercheranno di capirlo.
Cosa è accaduto e chi ha gettato scorie nucleare in mare
Si cominciò nel 1946, quando gli Stati Uniti scaricarono le prime scorie radioattive in mare, e si è finito all’inizio degli anni ’90, quando avvennero gli ultimi rilasci, sul fondo degli oceani.
Per l’area dell’Atlantico nord-orientale, dove l’Europa ha smaltito i suoi rifiuti, si parla di oltre 200mila fusti metallici da 200 litri, contenenti residui radioattivi legati con bitume o cemento in modo che i barili lanciati dalla superficie potessero resistere allo shock dell’impatto, spiega Chardon.
Chi è stato? Secondo lo studio:
- la Gran Bretagna, che ha fatto 34 operazioni tra il 1949 e il 1982 e ha immerso più di 140mila fusti
- il Belgio con 55mil000 fusti
- la Francia, comprese le due campagne del 1967 e del 1969 che hanno visto immergere più di 46mila fusti
Tutto normale? Sì, e in un certo senso anche nelle norme, dal momento che questi scarichi sono stati effettuati in alto mare, in acque internazionali dove non c’è alcuna regolamentazione.
Dalla fine degli anni ’60, però, gli scarichi sono stati vigilati dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, che ha delimitato le zone di immersione. Poi la London Convention on the Prevention of Marine Pollution by Dumping of Wastes and Other Matter del 1972 (ratificata nel 1975) ha deciso una moratoria, quindi il divieto totale di questa pratica. Nonostante ciò, negli anni ’80 sono state organizzate solo due campagne scientifiche nell’area dell’Atlantico nord-orientale (mentre la durata della vita dei fusti di metallo era stata stimata tra i 20 ei 25 anni al massimo).
Per quanto ne sappiamo, nell’acqua non è stato immesso carburante nucleare, rifiuti di alto livello o di lunga durata. Per quanto ne sappiamo, si tratta di attrezzature come guanti, materiali di laboratorio, campioni, ecc., assimilabili a rifiuti classificati come VLL (attività molto bassa), FA (attività bassa) o MA (attività media) . Tuttavia, l’accumulo di queste immersioni è tutt’altro che trascurabile e ammonterebbe a quasi 36 petabequerel, circa 300 volte meno rispetto ai rilasci dell’incidente di Chernobyl, dice Chardon al CNRS Le Journal,
Questo tipo di rifiuti contiene diversi tipi di radionuclidi, il cui comportamento, tossicità e durata di vita variano notevolmente. Alcuni sono ormai scomparsi, come il cesio 134 o il ferro 55; altri, come gli isotopi del plutonio (plutonio 238, 239, 240, 241, 242) hanno una durata che può variare da pochi decenni a più di 300mila anni; altri ancora, come il trizio, sono reputati di bassa tossicità – l’acqua “triziata” fa inoltre parte degli scarichi autorizzati delle centrali nucleari nei fiumi – ma si legano facilmente alla materia organica e quindi agli organismi viventi.
Infatti, gli scienziati non hanno idea di quale sia la radioattività residua di questi accumuli di fusti sul fondo dell’oceano.
Le due spedizioni
Alle due spedizioni di un mese parteciperanno 40 scienziati, tra oceanografi, ecologisti e radiochimici e si concentrerarnno su due aree con una superficie di circa 6mila chilometri quadrati situata alla latitudine di Nantes, a circa 600 chilometri dalla costa francese.
La prima campagna, prevista per il 2023 o il 2024, effettuerà una mappatura dei fondali nelle due aree interessate e individuerà i barili. La seconda campagna, in programma un anno dopo, si concentrerà sui radionuclidi presenti e sul loro impatto sugli ecosistemi. Gli scienziati dovranno anche determinare il “rumore di fondo radioattivo” e capire quanto di questo derivi dai fusti o dai test nucleari e dagli scarichi di liquidi autorizzati delle centrali e degli altri impianti nucleari.
Saranno anche prelevati campioni dagli ecosistemi e dai sedimenti vicino ai fusti, soprattutto microrganismi, conchiglie bivalvi o pesci di acque profonde, per studiare gli effetti di una possibile radioattività su questi organismi.
Ma cosa accadrà se gli scienziati registreranno tracce di perdite radioattive?
Voglio credere che questa conoscenza consentirà alle nostre società di compiere scelte informate sulle fonti energetiche del futuro e sul modo in cui le utilizzeranno, conclude Chardon.
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Fonte: CNRS Le Journal
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