Secondo una nuova ricerca, l'inquinamento da plastica starebbe creando interi ecosistemi in oceano aperto, con conseguenze pericolosissime
Secondo una nuova ricerca, l’inquinamento da plastica starebbe creando interi ecosistemi in oceano aperto
Secondo i ricercatori, specie costiere di piante e animali starebbero letteralmente “colonizzando” i rifiuti plastici che galleggiano nei nostri oceani: questo porterebbe alla nascita di comunità completamente nuove e finora impensabili in oceano aperto. Questi risultati ci danno un’idea del terribile impatto che l’inquinamento può avere sugli ambienti che ci circondano e mostrano come gli oceani, in particolare, stanno cambiando irreversibilmente a causa dell’attività umana. Come spiegano i ricercatori, ormai i problemi connessi ai rifiuti in plastica negli oceani vanno aldilà dei danni connessi agli animali, come ingestione e intrappolamento, e concernono una sfera molto più ampia.
I ricercatori hanno definito queste nuove comunità di viventi, che si sono sviluppate sulla plastica galleggiante, come neopelagiche: si sviluppano intorno vortici di immondizia creati dalle correnti oceaniche, in cui vengono attirati i rifiuti plastici provenienti dalle coste. Si tratta di vere e proprie “isole galleggianti” che possono espandersi anche per migliaia di chilometri quadrati sulla superficie dell’oceano; resti da pesca, corde e boe aiutano a tenere tutto insieme. La più grande zona di questo tipo oggi si trova nel vortice subtropicale del Pacifico settentrionale e contiene circa 79.000 tonnellate di spazzatura. Non solo grossi pezzi di plastica come bottiglie o shopper, tuttavia: queste “isole” infatti ospitano anche pericolosissime particelle di microplastica, che sono invisibili ad occhio nudo ma che rappresentano un pericolo ancora maggiore per l’intero ecosistema marino.
I primi indizi sull’esistenza di comunità neopelagiche sono emersi sulla scia dello tsunami giapponese del 2011: in quella occasione, i ricercatori trovarono quasi 300 specie costiere annidate fra i detriti che questa onda anomala aveva portato sulla costa dall’oceano aperto. Finora l’oceano aperto non è stato abitabile per gli organismi costieri – in parte a causa della limitazione dell’habitat (non c’era plastica lì in passato) e in parte perché finora mancavano gli elementi nutritivi essenziali per la sopravvivenza di queste specie.
Per ora, i risultati mostrano che l’accumulo di plastica nell’oceano sta fornendo una piattaforma per le specie costiere da utilizzare come habitat, ma non è ancora chiaro da dove queste specie traggano il loro nutrimento: alcuni ricercatori ipotizzano che le specie sfruttino i residui di cibo presenti fra i rifiuti, mentre altri ritengono che, come in un vero ecosistema, ci sia una sorta di catena alimentare per cui gli organismi più grandi mangiano quelli più piccoli. In ogni caso, presto questi “ecosistemi” nati dalla plastica potrebbero avere un impatto ben più rilevante sull’ambiente rispetto a quello che hanno oggi. Per questo motivo, i ricercatori puntano a mappare le isole di plastica disseminate negli oceani di tutto il mondo, in modo da monitorarle e quantificare il loro impatto per il futuro.
Seguici su Telegram | Instagram | Facebook | TikTok | Youtube
Fonte: Nature Communications
Ti consigliamo anche: