Nucleare, dal 1987 l’Italia ancora non sa dove mettere i suoi rifiuti radioattivi

A 34 anni dal referendum che ha vietato il nucleare in Italia ancora non abbiamo un Deposito per stoccare le scorie radioattive

Trentaquattro anni fa con un referendum promosso dopo il disastro di Chernobyl, in Ucraina, del 1986, dicemmo no alle centrali nucleari. Tra il 1988 e il 1990 le 4 centrali di Caorso, Trino, Latina e Garigliano furono chiuse e i cantieri degli impianti in costruzione interrotti. Ma che cosa è successo dopo? Dove sono andati a finire i rifiuti radioattivi?

Affidati, alla Sogin, la Società di gestione impianti nucleari nata nel ’99 per smantellare le centrali di  e gli impianti ex-Enea, sono ancora lì  con costi che copriamo noi, ogni bimestre nella bolletta elettrica.

Va da sé, quindi, che questi rifiuti debbano prima o poi trovare una collocazione definitiva.

Leggi anche: Deposito nazionale rifiuti radioattivi: i criteri usati per scegliere i luoghi idonei

All’inizio dell’anno era stata pubblicata la CNAPI, la Carta nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico elaborata da Sogin, un deposito progettato per contenere rifiuti a bassa e media attività, mentre per quelli ad alta si è in attesa di un deposito geologico internazionale, rimasta secretata per sei anni. Sei anni che hanno visto – tra l’altro – l’avvicendamento di tre Governi e tanti ricorsi al TAR dei singoli Comuni, le petizioni e le raccolte di firme lanciate nel nostro Paese.

Le scorie nucleari in Italia

Secondo dati aggiornati a dicembre 2019 dell’Isin, l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione, in Italia ci sono poco meno di 31mila metri cubi di materiale radioattivo (2,9 milioni di Giga-Becquerel, unità di misura che esprime la “carica” dei rifiuti radioattivi). Da dove arriva?

In parte dalla necessità di smaltire ancora i rifiuti radioattivi prodotti dalle vecchie centrali e, per la maggior percentuale, dal sempre più diffuso impiego di sorgenti di radiazioni ionizzanti nelle applicazioni mediche, nell’industria e nella ricerca. La nuova classificazione prevede la loro suddivisione in 5 classi, in base alla radioattività e al tipo di deposito necessario al loro stoccaggio, temporaneo o definitivo:

  • rifiuti radioattivi a vita media molto breve
  • ad attività molto bassa
  • di bassa attività
  • di media attività
  • di alta attività, che sono invece da destinare a un deposito geologico ancora da individuare in Europa

I nostri rifiuti radioattivi si trovano al momento in 24 impianti (tra cui le quattro ex centrali nucleari e i due centri di ritrattamento dei combustibili irraggiati di Saluggia e di Rotondella) in 8 Regioni (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia), cui si aggiungono 95 strutture che utilizzano “sorgenti di radiazioni”, ossia materie radioattive e macchine generatrici di radiazioni ionizzanti. Molte di queste strutture temporanee hanno molti punti critici in fatto di impianti e di localizzazione, che le rendono inidonee e pericolose nella gestione dei rifiuti radioattivi. Da qui la necessità di un deposito nazionale unico.

Legambiente fu chiara ad aprile, quando – dal rischio idrogeologico a quello di incidente rilevante, dalla contemplazione delle aree protette all’adozione di criteri più chiari e trasparenti – elencò i diversi elementi da considerare ancora più attentamente nel percorso verso la realizzazione del deposito nazionale.

Eppure niente, si perde tempo e 34 anni dopo la chiusura delle centrali i rifiuti radioattivi sono ancora un problema. Non si riesce far capire che un deposito è ben più sicuro rispetto ai rischi a cui tutta la popolazione oggi è esposta. E il tempo passa.

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