Il settore della raccolta e recupero degli abiti usati ha vissuto una importante crescita, passando dalle iniziali attività di beneficenza alla costituzione di una filiera industriale organizzata del riuso e riciclo. Da gennaio, in Italia, è diventata obbligatoria la raccolta differenziata dei rifiuti urbani tessili. Ma i Comuni non sono per niente pronti
Dal 1 gennaio 2022 è in vigore l’obbligo di raccogliere in modo differenziato i rifiuti tessili, come previsto dal decreto legislativo n. 116/2020. L’Italia anticipa dunque il recepimento della direttiva Ue (per cui la differenziata per questa tipologia di rifiuti partirà dal 2025), ma di fatto non siamo pronti.
Il MiTE, infatti, non ha ancora definito regole e obiettivi ed è ancora assente un sistema di responsabilità estesa del produttore che potrebbe indicare tutti gli obblighi sul ritiro e riciclo dei beni. Per questo motivo Anci, l’Associazione dei Comuni italiani, ha chiesto più tempo.
Con quel decreto legislativo l’Italia ha insomma anticipato di tre anni l’attuazione di uno dei decreti contenuti nel “Pacchetto di direttive sull’economia circolare” adottato dall’Europa nel 2018, che stabilisce misure vincolanti per il riciclo dei rifiuti e la riduzione del numero delle discariche entro il 2025 al fine di favorire percorsi di riciclo e riutilizzo e, come nel caso dell’industria tessile, ridurre gli impatti causati dal comparto sull’ambiente.
Secondo la Commissione e il Parlamento Ue, infatti, il settore è responsabile del 10% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra e – secondo le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente – gli acquisti di abbigliamento e prodotti tessili in Europa nel 2017 hanno generato 654 chili di CO2 a persona.
Come stiamo messi in Italia
Secondo il “Rapporto sui rifiuti urbani” pubblicato nel dicembre 2021 dall’Istituto superiore per la protezione ambientale (Ispra), nel 2020 sono state differenziate 143,3mila tonnellate di rifiuti tessili urbani (nel 2019 erano state 157,7mila tonnellate), pari a circa lo 0,8% del totale della raccolta differenziata (la plastica è pari all’8,6% e il vetro al 12,2%).
Vero è che ogni Comune effettua la raccolta secondo le sue modalità, dai cassonetti in strada alle campane alla raccolta porta a porta. Ma ci sono, e lo sappiamo bene, milioni di aspetti da migliorare, in primis incrementare i punti in cui conferire i rifiuti per facilitare i cittadini.
Nel 2019 la percentuale di rifiuti tessili nell’indifferenziato era stata pari al 5,7%. A tutto ciò si aggiunge la mancanza di una vera rete infrastrutturale di impianti in grado di recuperare materia dagli scarti tessili. Su questo punto, il PNRR ha stanziato diversi milioni di euro per la costituzione dei cosiddetti “textile hubs” innovativi cui si aggiungono altri fondi destinati alle amministrazioni pubbliche per il miglioramento dei sistemi di raccolta differenziata e riciclo.
Ma i tempi tra lo stanziamento sono lunghissimi e, come è ovvio, i Comuni e i gestori non sono ancora stati in grado di attivare un simile servizio di raccolta.
La responsabilità estesa del produttore
Altro neo è l’introduzione della Responsabilità estesa del produttore (EPR) che, secondo la strategia europea, si dovrebbe applicare anche al comparto moda e tessile. Un modo per responsabilizzare gli stessi produttori rispetto all’intero ciclo di vita dei loro beni, e quindi anche del loro smaltimento. L’EPR avrebbe un forte impatto sui brand della fast fashion, che producono capi dalla vita breve destinati ad affollare le discariche. Favorevoli alla EPR sono le associazioni ambientaliste e le aziende impegnate nella raccolta tessile.
Ma anche in questo caso le aziende produttrici hanno bisogno di tempo e norme precise per attuare la Responsabilità.
Fonti: Gazzetta ufficiale / ANCI / ISPRA
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