I “superenzimi” mangia plastica possono davvero frenare il nostro problema con i rifiuti?

Sono ormai più di trent’anni che gli scienziati studiano per mettere a punto un sistema che possa contribuire a risolvere il problema dei rifiuti in plastica, sempre più urgente in ogni parte del mondo

Il problema dei rifiuti plastici è terribilmente familiare ovunque: non c’è angolo del Pianeta che non sia piagato da questa vera e propria emergenza – dalle calotte polari agli oceani caldi dell’Equatore. Ovunque si registrano spiagge ricoperte dai rifiuti che le onde portano a riva – bottiglie, sacchetti dei supermercati, piatti, bicchieri, involucri di cibo, ma anche reti da pesca dismesse, che diventano trappola mortale per tartarughe e altri animali marini.

Secondo l’associazione Plastics Europe, solo nel 2020 sono state prodotte circa 367 milioni di tonnellate di plastica nel mondo. Si tratta per lo più di imballaggi e di plastica monouso – che viene prodotta grazie all’estrazione di petrolio, che rilascia gas serra durante le fasi di produzione e che infine viene utilizzata una sola volta, o comunque per un periodo di tempo molto breve e decisamente incompatibile con l’inquinamento necessario per produrla.

produzione plastica nel mondo

@ Plastics Europe

Tuttavia, in questo “mare” di plastica, qualcuno sta provando a cercare un alleato per contrastare la diffusione dei rifiuti – e sembra averlo trovato in minuscoli organismi in grado di “digerire” il materiale plastico, contribuendo alla pulizia dell’ambiente.

Le prime osservazioni di microbi mangia-plastica risalgono ai lontani anni ’90: uno studio condotto nel 1991 aveva dimostrato l’esistenza di enzimi in grado di scomporre il materiale plastico, ma solo quello già chimicamente fragile o biodegradabile – motivo per cui lo studio non ebbe tanto clamore. A partire dagli anni 2000, si è pensato di trovare soluzioni utili anche alla degradazione di plastiche più dure e resistenti. Studi successivi hanno poi portato alla scoperta di enzimi chiamati cutinasi (presenti in batteri chiamati Thermobifida cellulosilytica) in grado di “digerire” anche il polietilene tereftalato (PET) – un materiale costituito da lunghe molecole simili a fili, assemblati da molecole più piccole legate insieme in catene: i legami chimici nelle catene in PET sono forti, quindi difficili da rompere per gli enzimi.

Alla fine del primo decennio del millennio sono divenuti noti ai ricercatori molti enzimi in grado di contribuire a risolvere la piaga della plastica a cui noi stessi ci siamo condannati. Lo studio più importante in questo senso è certamente quello condotto nel 2016 da un team di ricercatori giapponesi. Visitando un sito per il riciclaggio su articoli in PET, i ricercatori hanno scoperto la presenza di un ceppo di batteri (Ideonella sakaiensis) che crescerebbe proprio sugli oggetti in PET e che utilizzerebbe il materiale come fonte di nutrimento, aiutando così la degradazione di questo materiale.

(Leggi anche: I microbi in tutto il mondo si stanno evolvendo per mangiare la plastica, lo studio)

Il ceppo di batteri scoperto in Giappone produce due enzimi: il primo è in grado di scomporre le lunghe catene di PET in molecole più piccole (dette MHET); il secondo scompone le molecole più piccole in glicole etilenico e acido tereftalico, che sono gli elementi costitutivi del PET. In pratica, con il loro lavoro questi enzimi sono in grado di invertire completamente il processo di produzione del PET.

Lo studio giapponese ha aperto così le porte verso la decomposizione sostenibile della plastica e la conseguente riduzione dei rifiuti, a vantaggio dell’ambiente. Gli enzimi scoperti sono stati migliorati e resi più efficienti nell’opera di degradazione del PET, e messi insieme in un unico “super-enzima” in grado di mangiare il PET fino a sei volte più velocemente dei due enzimi separati.

Oltre ai tempi di decomposizione più veloci, c’è anche un altro importante vantaggio derivanti dall’avvalersi della collaborazione di enzimi “mangia-plastica”. Essi infatti, scomponendo il materiale a livello molecolare e restituendo le componenti originarie della plastica, permettono di creare nuovo materiale di elevata qualità, senza bisogno di additivi inquinanti – come avviene per le attuali tecniche di riciclaggio della plastica. Questo permetterebbe di dare vita ad un’economia veramente circolare anche nell’ambito della produzione di nuova plastica a partire da materiale già usato.

Tuttavia, ci sono dei limiti all’utilizzo di questi enzimi. Innanzitutto, non sono in grado di digerire ogni tipo di plastica prodotta – alcune plastiche sono addirittura più resistenti del PET alla loro azione e pertanto impossibili da scomporre nelle loro molecole costitutive. In secondo luogo, gli enzimi riescono a lavorare bene se la plastica è stata ammorbidita mediante riscaldamento – una pratica che può avvenire solo in specifici centri a temperatura controllata e non in ambiente aperto.

Quindi non ci si può affidare solo alla “collaborazione” degli enzimi per risolvere il problema dei rifiuti in plastica nell’ambiente e nei mari – dobbiamo in primo luogo smettere di produrli e di disperderli nell’ambiente. Solo se sapremo prenderci cura della natura, raccogliendo i nostri rifiuti e impegnandoci concretamente a produrne il meno possibile, potremo dire davvero di aver trovato una soluzione al problema.

Seguici su Telegram Instagram | Facebook TikTok Youtube

Fonte: The Guardian

Ti consigliamo anche:

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin
Iscriviti alla newsletter settimanale
Seguici su Instagram