“Non mi arrendo”: Paul Watson resta in prigione, ma la sua battaglia per le balene continua. La lettera del fondatore di Sea Shepherd

Il fondatore di Sea Shepherd rimane in carcere almeno fino al 18 dicembre, mentre il Giappone chiede la sua estradizione per un presunto incidente avvenuto nel 2010. L'attivista teme di non poter tornare a casa se estradato e scrive una lettera dal carcere

Il gelido vento artico soffia sul fiordo di Nuup Kangerlua, mentre Paul Watson, il fondatore di Sea Shepherd, trascorre il suo 74esimo compleanno dietro le sbarre della prigione di Anstalten. Il tribunale di Nuuk ha infatti deciso di prorogare la sua detenzione di altre due settimane, fino al 18 dicembre, in attesa di una decisione sulla sua possibile estradizione in Giappone.

Watson, noto per le sue azioni contro la caccia alle balene, è stato arrestato lo scorso luglio mentre si trovava in Groenlandia per rifornire la sua nave, la MV John Paul DeJoria. L’accusa? Cospirazione per violazione di proprietà privata, interruzione di attività e danneggiamento della baleniera giapponese Shonan Maru 2 nel 2010 in Antartide.

Un’accusa che Watson respinge con forza. “Non ero nemmeno presente sulla scena del presunto crimine”, si difende l’attivista, che nega di aver avuto un ruolo di comando nell’incidente. “Se mi mandano in Giappone, non torno a casa“, confessa Watson in un’intervista al Guardian. “So che se mi estradano, non avrò la possibilità di difendermi e rischio di passare il resto della mia vita in prigione“.

Una prospettiva terribile per quest’uomo che ha dedicato la sua vita alla protezione degli oceani e delle creature marine. Un uomo che si considera un “esecutore dei trattati internazionali sulla caccia alle balene” e paladino della giustizia ambientale, osteggiato e perseguitato per le sue azioni coraggiose.

La lettera di Paul Watson: un grido di dolore e di speranza

Dalla sua cella nella prigione di Anstalten, Watson ha scritto una lettera carica di frustrazione e di preoccupazione. “Ritorno in tribunale il giorno del mio compleanno, il 2 dicembre. Sarà la mia sesta apparizione in tribunale dopo 134 giorni. Non è stata ancora presa una decisione“, scrive Watson, sottolineando l’assurdità della sua lunga detenzione preventiva.

“Le prove dimostrano chiaramente che non sono stato coinvolto nella pianificazione o nelle attività relative al presunto crimine“, prosegue Watson, che sottolinea la natura politica dell’accusa. “È chiaro dalla documentazione video che si tratta di un’accusa politicamente motivata su un reato molto minore di 14 anni fa. Non ho ferito nessuno”.

Watson descrive la sua angoscia per la separazione dalla famiglia. “Il 2 dicembre compirò 74 anni. Non vedo i miei figli da giugno e mi è concessa solo una telefonata di 10 minuti a settimana alla mia famiglia”, racconta con amarezza.

“Tornerò in tribunale il 2 dicembre, ma questa volta senza speranza o aspettative di rilascio. Questa aspettativa è diventata una forma di tortura psicologica e la cosa migliore che posso fare ora è non essere speranzoso e non aspettarmi il rilascio, e accettare che non vedrò i miei figli per Natale, che non li vedrò dopo sei mesi”.

Watson conclude la sua lettera denunciando l’ipocrisia del Giappone e la sua violazione della moratoria globale sulla caccia alle balene. “Mi trovo in questa prigione perché il mio programma televisivo Whale Wars ha mostrato al mondo i crimini dei balenieri giapponesi, causando umiliazione e imbarazzo all’industria”, scrive Watson.

“Non sono un terrorista, ho solo cercato di proteggere le balene”

Nell’intervista al Guardian, Watson ribadisce la sua innocenza e la sua determinazione a continuare la sua battaglia per la protezione delle balene. “Non sono un terrorista”, afferma con fermezza. “Non ho mai fatto male a nessuno. Ho solo cercato di proteggere le balene“.

 E mentre le giornate si susseguono nella cella di Anstalten, l’attivista continua a scrivere, a progettare, a tenere viva la fiamma della speranza. “Non posso permettermi di crollare”, confida al Guardian. “Devo rimanere forte per me e per la mia famiglia”. Una famiglia che lo sostiene a distanza, con affetto e preoccupazione. “Mia moglie è un po’ in ansia, ma cerca di essermi di supporto”, racconta Watson. “E i miei figli… beh, loro sono la mia forza”.

Mentre il Ministero della Giustizia danese prende tempo, la sorte di Paul Watson è appesa a un filo. La sua eventuale estradizione in Giappone rappresenterebbe un precedente pericoloso per tutti gli attivisti ambientali che lottano per la difesa del Pianeta.

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