Particelle di plutonio e uranio risalenti a test nucleari britannici sono stati rinvenuti in Australia sessant'anni dopo le detonazioni
Particelle di plutonio e uranio risalenti a test nucleari britannici sono stati rinvenuti nell’entroterra australiano più di sessant’anni dopo le detonazioni. Si cerca di comprendere la pericolosità di questa scoperta.
Più di 100 kg di uranio altamente tossico e di plutonio sono stati dispersi in piccole particelle radioattive dopo la detonazione, da parte dei britannici, di nove bombe atomiche in aree remote del sud dell’Australia – inclusa Maralinga. Gli scienziati sostengono che queste particelle radioattive siano ancora presenti nel suolo, più di sessant’anni dopo le detonazioni, e che sono più complesse e variegate di quanto si pensava inizialmente.
L’esercito inglese ha detonato nove bombe nucleari e condotto centinaia di test nucleari nel remoto sud dell’Australia fra il 1953 e il 1963 – spiega Megan Cook della Monash University School of Earth, autrice dello studio. – La contaminazione radioattiva che ne è derivata persiste ancora oggi.
(Leggi: Chernobyl: le reazioni nucleari sembrano essere tornate a “bruciare”)
Il team di ricerca ha usato un sistema di radiazioni sincrotrone per decifrare le caratteristiche fisiche e chimiche di queste particelle. Si è scoperto che le particelle analizzate contenevano una combinazione di plutonio, carbonio e uranio altamente reattiva – eppure era rimasta stabilizzata nella matrice delle particelle per quasi sessant’anni. Fra il 1950 e il 1988 sono stati registrati più di 230 incidenti con armi nucleari, inclusi almeno dieci con un documentato rilascio di particelle radioattive nell’ambiente. I rischi per questi disastri ambientali sono solo aumentati ulteriormente dopo che trattati come l’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty sono stati cancellati.
Comprendere il destino di queste particelle radioattive nell’entroterra australiano è fondamentale per mettere in sicurezza l’Australia in caso di incidenti nucleari nella regione – spiega il coautore dello studio, professor Joël Brugger – soprattutto per quei territori abitati dalle popolazioni indigene come il Maralinga.
Fonte: Nature
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