La Marea nera nel golfo del Messico non accenna a fermarsi e probabilmente l’azione della BP, che ha già speso 2,65 miliardi di dollari nel tentativo di arginare il disastro, rischia ora di peggiorare la già drammatica situazione.
La Marea nera nel golfo del Messico non accenna a fermarsi e probabilmente l’azione della BP, che ha già speso 2,65 miliardi di dollari nel tentativo di arginare il disastro, rischia ora di peggiorare la già drammatica situazione.
Da un gruppo di esperti britannici infatti, è arrivata un’analisi e una relazione che ha dell’incredibile: per tutelare l’ecosistema ambiente, dopo l’affondamento della piattaforma Deepwater Horizon, sarebbe stato meglio non fare nulla sul fondale oceanico. Bruciare il petrolio sulla superficie dell’oceano, versare nelle acque quantità inestimabili di solventi (tutti tentativi miseramente falliti nella speranza di contenere l’espansione del greggio) potrebbe rivelarsi più dannoso dello stesso oil spill. Secondo i tecnici infatti, in questi casi fatti è meglio sperare in una veloce evaporazione del greggio sul lungo periodo.
Intanto però i problemi non sono finiti, perché il satellite Envisat ha evidenziato dalle sue immagini che la macchia nera ha iniziato a formare una sorta di vortice pericoloso nel golfo del Messico. In breve, il petrolio fuoriuscito viene catturato dalle correnti d’acqua calda creando un movimento a se stante.
”Sulla base di forti analogie con differenti tipi di osservazioni, possiamo confermare che parte della marea è costantemente intrappolata da questa forte corrente che spingerà le acque inquinate in tutta la parte meridionale del Golfo”, ha detto Bertrand Chapron, dell’Istituto francese di ricerca sullo sfruttamento del mare Ifremer. ”Il radar di Envisat – ha aggiunto – può osservare molto bene la presenza del petrolio sull’acqua, misurando l’ampiezza e i movimenti della macchia”. Soltanto in questi ultimi mesi, ha confermato Chapron, gli altri due eventi nei quali i dati di Envisat sono stati un punto di riferimento sono stati il terremoto di Haiti del gennaio scorso e la nube di cenere prodotta nell’aprile scorso dall’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajokull.