Non c’è pace per gli indigeni dell’Amazzonia. Violenze, intimidazioni, piogge di pesticidi per avvelenare le loro terre. L’unica loro “colpa” è di battersi affinché i confini dei territori che abitano da secoli vengano rispettati
Non c’è pace per gli indigeni dell’Amazzonia: il 2015 ha fatto segnare un netto aumento delle violenze ai danni di chi si batte per proteggere la foresta da tutti coloro che vorrebbero tagliare gli alberi indiscriminatamente, per appropriarsi del legno o per lasciare spazio a miniere, dighe, coltivazioni estensive e pascoli. Si tratta di crimini che avvengono nel silenzio quasi assordante delle autorità locali e che, troppo spesso, rimangono impuniti.
Con 49 attivisti uccisi in tutto il Brasile, di cui 45 nella sola Amazzonia, il 2015 si è aggiudicato il triste titolo di anno più violento del decennio: per trovare numeri analoghi, infatti, bisogna risalire al 2004. La recrudescenza delle aggressioni contro gli ambientalisti e l’impennata degli atti intimidatori e dei crimini perpetrati quotidianamente ai danni delle popolazioni indigene, rappresenta un enorme passo indietro rispetto ai risultati per controllare violenze e deforestazione ottenuti nel corso dell’amministrazione Lula.
Sembra quasi che, per una parte della politica, la violenza contro chi difende la foresta e le terre ancestrali degli indigeni sia diventata, tacitamente e informalmente, qualcosa di “accettabile”.
È questa l’opinione di Felipe Milanez, giornalista, documentarista e ambientalista brasiliano, intervistato di recente dal Guardian in merito ai tanti omicidi rimasti impuniti nella regione amazzonica. Omicidi di cui spesso, va detto, si conoscono autori e mandanti, ma di fronte ai quali il meccanismo della giustizia sembra incepparsi: di fatto, è rarissimo che si arrivi ad arresti, processi e sentenze di condanna.
“La regola è l’impunità […]” – afferma in proposito Milanez – “e uccidere è diventato politicamente accettabile se lo si fa per raggiungere degli obiettivi economici. Basti pensare che, dal 1964 al 2010, la Pastoral Land Commission ha registrato 914 omicidi di attivisti e lavoratori rurali nello stato del Pará. Di questi, solo 18 casi sono stati portati in giudizio, concludendosi con la condanna di 11 mandanti e di 13 esecutori materiali. Lo scorso anno, 19 attivisti sono stati uccisi nel Pará, 7 di loro nella stessa riserva in cui, nel 2005, fu assassinata la suora americana Dorothy Stang. Attualmente, tutti i responsabili di questi omicidi sono liberi.”
Oltre agli omicidi, sono frequenti atti intimidatori, minacce e violenze di altro tipo: come gli incendi dolosi perpetrati ai danni delle aree abitate dagli indigeni o, come è accaduto sempre più spesso negli ultimi mesi, l’utilizzo di pesticidi contro la popolazione. Tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, gli insediamenti dei Guaranì-Kaiowa nel Mato Grosso do Sul sono stati più volte oggetto di raid aerei, che hanno spruzzato pesticidi sulle case, avvelenando terre e fonti d’acqua.
L’unica “colpa” dei Guaranì-Kaiowa è di battersi affinché i confini dei territori che abitano da secoli vengano rispettati: vogliono continuare a vivere nella loro foresta, come hanno sempre fatto, ma questa semplice e legittima richiesta sembra collidere con gli interessi di alcune lobby, tra cui agricoltori e allevatori, interessati ad appropriarsi delle loro terre.
Di fronte a questo scempio, sia i governi locali che quello centrale sembrano tacere. La richiesta delle comunità indigene di delimitare ufficialmente le loro terre, sanzionando le incursioni illegali nei loro territori, è caduta più volte nel vuoto, tanto che alcune tribù hanno deciso di organizzarsi e passare al contrattacco: come i Ka’poor che, grazie all’appoggio di Greenpeace, ora dispongono di trappole fotografiche, computer e tracciatori GPS per documentare le attività illegali perpetrate dai taglialegna abusivi nella loro porzione di Amazzonia.
Nonostante gli indigeni siano i migliori difensori della foresta amazzonica, di conseguenza, degli interessi di tutti noi, le autorità brasiliane continuano a non riconoscere il loro diritto a scegliere e ad autodeterminarsi, evitando persino di consultarli quando si devono prendere decisioni che riguardano le aree in cui vivono. Questo atteggiamento sembra avere radici lontane, che affondano nelle prime fasi della “conquista dell’Amazzonia” ad opera della dittatura militare brasiliana, come spiega ancora Milanez.
“L’espansione contemporanea in Amazzonia è tecnicamente un’invasione ed è stata avviata dalla dittatura militare verso la fine degli anni Sessanta e Settanta, rappresentando una catastrofe umanitaria per le popolazioni indigene e per le comunità locali […] Quello che colpisce è che la democrazia che c’è oggi non ha reso più facile la vita delle persone che vivono nella foresta: i popoli indigeni e le comunità tradizionali non hanno il diritto di essere consultati su ciò che riguarda loro e i loro territori, e sono ancora visti come oggetti, da usare e gettare via. E la violenza adesso sta aumentando, perché aumentano appropriazione dei terreni, progetti minerari e costruzioni di mega-dighe. Si tratta di investimenti economici che sono in contraddizione con i diritti sociali sanciti nella Costituzione.”
Nonostante qualche sporadica vittoria, come il successo della campagna antifracking condotta dalle tribù della valle del Javari, con l’appoggio di alcuni organizzazioni internazionali, la strada che porta al pieno riconoscimento dei diritti degli indigeni sembra ancora lunga.
E questa strada, come spiega ancora Milanez, passa anche per un’assunzione di responsabilità da parte dei governi stranieri e delle multinazionali, che troppo spesso fingono di non vedere mentre traggono profitto da attività che vengono svolte in modo illegale, calpestando i diritti umani degli indigeni.
“A livello internazionale, altri governi, e in particolare quelli del Nord del mondo, devono assumersi la responsabilità dei loro investimenti, specialmente di quelli che provengono da grandi compagnie europee, come Nitro, Alstom, GDF Suez, Bayer, Siemens e così via, i cui profitti derivano da distruzione e deportazioni. A questo proposito, vorrei citare le parole pronunciate due anni fa da Megaron, capo tribù dei Kayapó, davanti all’Assemblea nazionale francese: ‘Le vostre aziende stanno investendo in Amazzonia, e questo ci interessa in prima persona, in quanto distrugge la nostra foresta, mentre noi non veniamo nemmeno consultati. Perché lo fate? E acquistate il legname illegale. Perché lo comprate?'”
Photo Credit ©Survival
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