Guarda le cicatrici nel mare e nei fondali del Giglio a 10 anni dal disastro della Concordia

I danni ambientali e i lavori di ripristino dell'ecosistema a 10 anni dalla tragedia del naufragio della Costa Concordia.

I danni ambientali del naufragio, a 10 anni dall’incidente, non sono ancora del tutto risanati, ma ci sono speranze

Il 13 gennaio 2012 la nave da crociera Costa Concordia naufragò in prossimità della costa dell’Isola del Giglio, uno dei paradisi delle Isole Toscane. L’episodio ha scosso profondamente tutto il Paese, specialmente perché la tragedia ha portato lutti e sofferenze alle famiglie delle 32 persone che persero la vita nell’incidente, nonché traumi psicologici ai sopravvissuti.

Purtroppo, come se non bastasse, l’evento ha causato danni ingenti all’ambiente marino. Dopo 10 anni, le ferite non sono ancora definitivamente risanate.

Secondo l’ISPRA, le conseguenze ambientali del naufragio della Concordia possono essere divise in due categorie: quelle dovute alla presenza del relitto e quelle provocate dalle attività necessarie per la sua rimozione. A soffrire è stato l’intero ecosistema, in particolare le praterie di Posidonia oceanica e i popolamenti del Coralligeno.  Entrambi sono protetti da Convenzioni internazionali per il loro ruolo nel Mediterraneo di area di riproduzione e rifugio per molte specie marine e quindi per la loro elevata biodiversità.

L’incidente ha comportato lo sversamento in acqua di sostanze nocive di cui la nave era carica: oltre 2000 tonnellate di olio combustibile pesante stivate nei serbatoi della nave, 1351 m³ di acque grigie e nere, 41 m³ di oli lubrificanti, 280 litri di acetilene, 600 kg di grassi per apparati meccanici, 855 litri di smalto liquido, 50 litri di insetticida liquido e  1 tonnellata di candeggina e 25.000 tonnellate di cemento contenute in 14 mila sacchi necessari per raddrizzare la nave.

La popolazione di alghe e piante è stata danneggiata anche dall’effetto dell’ombra del relitto e dalla sedimentazione del materiale di cantiere, dalle opere di scavo e dalla dispersione di detriti e rifiuti provenienti dalla nave.

Ma quali sono state le operazioni messe in atto per il recupero? Nel 2018 sono terminate le attività di ripristino ambientale del fondale e dal 2019 è iniziata l’ultimo stadio progettuale, una fase ancora in corso.  Le azioni  consistono nel reimpianto di esemplari di Posidonia oceanica e nella messa a dimora di organismi del coralligeno per un’estensione complessiva di 2.100 metri quadri, a profondità comprese tra 10 e  5 metri.

Le prime analisi infondono fiducia. Sembra che l’opera di reinsediamento delle specie stia funzionando, un indice che permette di progettare i prossimi passi. Rimosse le cause della perdita di posidonia, i trapianti effettuati nel 2016 hanno dimostrato un raddoppio del numero di fasci trapiantati, così come quelli effettuati dal 2019 sembrano avere un esito simile. Analogamente per le gorgonie, gli elevati tassi di sopravvivenza e di guarigione hanno fatto sì che alcune pareti rocciose abbiano riacquistato la loro originale tridimensionalità e si stiano avvicinando alla loro condizione naturale.

Il graduale ripristino degli habitat ha portato a una nuova colonizzazione di pesci: murene, corvine, scorfani e aragoste, diventate rare nel resto dei fondali dell’isola, stanno ripopolando le acque.

Tuttavia, come precisa l’ISPRA, i tempi di recupero seguenti alla definitiva conclusione degli eventi causati dall’impatto, possono superare anche il decennio, ma, nel peggiore dei casi, anche non realizzarsi affatto. La chiave, come sottolinea un documento del Ministero dell’Ambiente,  è monitorare l’ecosistema e tutelarlo:

L’ancoraggio o l’azione di reti da pesca sui fondali dove sono stati effettuati trapianti lunghi e complessi di Posidonia e gorgonie, potrebbe, in assenza di una regolamentazione, creare danni definitivi nell’arco di pochi mesi, vanificando lo sforzo fatto ma soprattutto perdendo l’occasione di creare una vera e propria zona di ripopolamento e di fruizione ecocompatibile.

Fonte: ISPRA

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